Lo sport è alimentato dall’agonismo e dalla passione. E nutrire una passione significa patire, soffrire per un obiettivo, ma anche prendere parte, dare sapore alla propria esistenza, conoscersi, sfidarsi. In ogni prestazione è presente la tensione della prova, del superare se stessi, del confrontarsi. In attesa, c’è il limite, il riscontro, la sconfitta. Tutte queste istanze sono da gestire psicologicamente. Vincere o perdere, raggiunge qualcosa di nucleare in ogni individuo, espande o mette in crisi la propria identità. Espone alla differenziazione, alla distinzione, alla contrapposizione dell’altro, ma anche al bisogno profondo di autoaffermazione, di socialità e di buoni rapporti. Il peso che uno sportivo assegna alla vittoria, alla sconfitta o alla classifica, hanno un’enorme impatto sulla sua vita conoscitiva e ne condizionano le prestazioni. Le valutazioni e la prospettiva con cui egli stima gli esiti agonistici, minaccia la sua motivazione e con essa la messa a fuoco di attenzione, memoria, pensiero e processi automatici. Minaccia soprattutto la sensazione di sentirsi in-capace e/o in-competente. In questi casi è premiante per lo sportivo saper accomunare alcuni fattori: l’aspetto informativo (il feedback) con cui valuta e ristruttura positivamente il suo pensiero; la capacità di dirigere l’attenzione sulle componenti tecniche della disciplina, ‘come ho giocato’, piuttosto che sul ‘quanto è finita’; l’attitudine a lodarsi e valorizzare gli aspetti positivi della propria condotta; e l’abilità di usare contemporaneamente leve motivazionali premianti e/o inibenti. Tutto ciò rappresenta una sfida avvincente, con se stesso e con gli altri. Ma la sfida maggiore è culturale ed è quella di maturare nella vittoria, ottenendo risultati migliori, e svilupparsi nella sconfitta, adattandosi meglio alle difficoltà. Per quanto mi riguarda gli obiettivi della pratica sportiva sono molteplici e ‘vincere o perdere’ rappresentano solo un segmento dei fattori più interessanti. Gli altri elementi riguardano la capacità di godere del benessere psicologico derivato dalla pratica sportiva e con essa l’equilibrio emotivo e la salute. Con quale atteggiamento? Quello di pensare al piacere dell’azione, ad agire con la testa, ad accendere il cuore, a far crescere la personalità.
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Un allenatore è in grado di determinare il clima emozionale percepito dall’atleta ed è in grado di modificarne la motivazione. Come ci riesce? Con comportamenti appropriati e condotte comunicative efficaci. Queste ultime, sono il frutto di qualcosa che va oltre la sua preparazione tecnica e riguardano più precisamente il suo sviluppo personale e relazionale. L’allenatore, che non è una ‘tabula rasa’, quando pensa a un progetto (atleta o squadra) ha delle aspettative precise sulle future capacità dei propri atleti. Queste aspettative, che sono il prodotto di stereotipi, reputazione dell’atleta, precedenti prestazioni e credenze ‘ingenue’, lo guideranno ad adottare comportamenti, dare feedback, attenzione e tempo diversificati, da atleta ad atleta, in ragione delle sue stesse aspettative. Quindi, anche quando un allenatore dice, ‘voglio vederti in campo e valuterò di conseguenza’, non è credibile, perché ha già in atto l’aspettativa ‘profetica’ del suo proposito. Tutto ciò naturalmente è la norma. Il problema subentra quando i piani dell’allenatore entrano nella fase operativa, dove il tranfert della comunicazione diventa centrale. Infatti, bastano comportamenti apparentemente irrilevanti e approcci comunicativi inadatti, a rendere scarsi i risultati e l’entourage demotivato. Vediamo ora come i comuni comportamenti dell’allenatore, possano risultare efficaci o meno sul rendimento e la motivazione dell’atleta. Il tempo passato a parlare con l’atleta in genere si pensa che sia utile, e lo è. Ma lo è in particolare se si ascolta l’atleta, molto meno se è l’allenatore a parlare e istruire. Quindi attenzione ai ‘turni di parola’ (come dice il mio amico Dott. Trevisani). Il tempo fornito all’atleta per svolgere autonomamente i propri esercizi è molto positivo, ma lo è ancor di più se alla fine di un allenamento rimane tempo per un generoso feedback sull’atteggiamento del lavoro compiuto. La soluzione dei problemi tattici da parte dell’allenatore, sono infinitamente meno efficaci di un aiuto a rintracciare da sé, atleta, la soluzione di un dubbio tattico o di una strategia. Spesso vediamo allenatori che urlano e sbraitano a bordo campo e sembrano infondere il loro sapere a dei poveri inetti. Purtroppo, serve a poco, se il copione e la sceneggiatura non sono state ben organizzate prima e durante gli allenamenti. In campo, secondo me, dovrebbero prevalere carisma, lievi aggiustamenti, invenzioni. Allo stesso tempo, servono a poco le affermazioni di dovere (‘si deve fare così’) o le istruzioni a comando (’fai questo e basta!’). Sono molto più efficaci l’apprezzamento per una performance (’hai saltato proprio bene’), l’elogio diretto alla persona (’sei bravo/a’) o l’incoraggiamento (’dai che ce la fai’). Un allenatore mette in campo tutte le sue qualità comunicative quando valorizza il pensiero del suo atleta (‘cosa ne pensi di questo allenamento o di questa tattica?’), quando verifica il suo messaggio (‘hai capito!’), quando ascolta le sue domande, palesi e nascoste, quando ne apprezza le rivelazioni emotive e quando si pone nella sua prospettiva, in chiave empatica. Certo, ho parlato di allenatori e di qualità personali e comunicative, ma poi ci sono i ‘maghi’, i ‘cinghiali’, le ‘folle cantanti’ e i problemi di cassa. E allora la psicologia diventa un plus, soprattutto per coloro che, esercitandola, cercano di salvarsi dai naufragi del buon senso. ‘Scegli liberamente!’, ‘Fai ciò che vuoi! ‘Fallo perché ci credi! Sono bei rinforzi per ogni nostro comportamento e cambiamento. Ma come possiamo fare per ’legare’ gli stimoli ai nostri processi motivazionali e renderli virtuosi? E come possiamo essere più consapevoli e determinati nei nostri comportamenti e cambiamenti? Per aiutarci in questo dobbiamo porci delle domande mirate e ricordarci che ogni cambiamento si realizza quando conosciamo come fare, ma soprattutto quando comprendiamo il perché vale la pena farlo’. Pensiamo ad una attività che ci piace e a cui dedichiamo tutto il tempo che abbiamo a disposizione. Che cosa ci spinge a farlo? Rumble, rumble. Ebbene, andiamo più in profondità e chiediamoci: ‘perché gli altri vogliono che io faccia sport?’, ‘perché mi sento a disagio quando non lo faccio?’, ‘perché sento che è la cosa migliore che posso fare per me stesso?, ‘perché mi diverte?’. Sono domande che ci aiutano a usare la testa, a capire perché vale la pena realizzare obiettivi e testare gli stimoli adeguati allo scopo. Sin dall’inizio, le risposte che ci diamo sono fondamentali per vivificare la nostra capacità di agire e reagire efficacemente di fronte alla presenza/assenza di ricompense, alla presenza/assenza di scelte, alla presenza/assenza di scadenze imposte dai programmi di allenamento. Ci aiutano a capire qual è il nostro stile motivazionale e quali sono gli atteggiamenti più funzionali al raggiungimento dei nostri scopi. Questa consapevolezza è utile, di conseguenza, anche agli allenatori e agli educatori sportivi. Li agevola a riconoscere quali sono gli ostacoli derivanti dalle variabili di tipo sociale e interpersonale che incrociano, osservare quale tipo di motivazione è in atto e comprendere quale forma di autoregolazione stanno attivando i loro allievi. Un esempio lo abbiamo quando l’atleta cerca il limite delle proprie prestazioni, ma si sente inadeguato. La sensazione di inadeguatezza, può fargli perdere l’interesse o il piacere per la stessa pratica sportiva. Oppure, può perdere interesse e stimoli, quando l’allenatore è ispirato ad un eccessivo controllo ed è poco propenso ad accogliere scelte e opinioni che differiscano dalle sue. Che dire allora, invitiamo l’atleta a porsi buone domande per comprendere il suo stile motivazionale e, contemporaneamente, invitiamo l’allenatore a fare del suo meglio per mettere in pista l’atleta, ben conscio che in pista ci vanno le sue gambe e la sua testa. Premesso che chi vuole veramente qualcosa cerca strade e non giustificazioni, vediamo ora le sei fasi con le quali ognuno di noi si confronta per realizzare comportamenti motivati. Con il sorriso tra le labbra e un po’ d’ironia, nel senso che mi riconosco, userò il simbolo del cinghiale, tanto utilizzato in Toscana, per definire la persona forte ma che agisce senza testa e senza controllo, per la pura sopravvivenza. Ne descriverò i processi e arriverò a tratteggiare il comportamento del ‘cinghiale evoluto’. La prima fase riguarda il comportamento del ‘cinghiale primitivo’ nelle sue varie fasi di crescita, e cioè la motivazione (o per meglio dire l’A-motivazione) di colui che agisce inizialmente in modo casuale e indeterminato, senza controllo sui propri atteggiamenti e senza attribuire un chiaro significato e valore a ciò che fa. Lo fa di genetica. Il ‘cinghiale progredito’, invece, comincia a riconoscere l’importanza dei meccanismi che gli arrivano dall’esterno sotto forma di premi e punizioni, senza peraltro esercitare un chiaro controllo sui propri processi regolatori. Reagisce ai premi e alle punizioni, ma non lo soddisfano fino in fondo, li subisce. Lo fa perché interagisce. Il ‘cinghiale sviluppato’, d’altro canto, introduce un maggiore controllo su di sé, riesce a coinvolgere le voci del proprio IO ed è capace di premiarsi o punirsi per ciò che fa. Inizia il suo percorso di autocoscienza attraverso il potenziamento dell’autostima e la gestione dei propri stati d’animo, comprese le emozioni negative, i sensi di colpa e l’ansia. Si guarda allo specchio. Il ‘cinghiale emancipato’ compie ulteriori passi, si svincola dalle semplici motivazioni esterne e promuove se stesso in azione, riconosce l’importanza delle proprie iniziative e scopi, e scopre in modo consapevole il valore delle parole, delle immagini e dei pensieri sul proprio operato. Scopre di agire con fermezza e continuità, nel tempo. Diventa attore. Il ‘cinghiale maturato’, coerentemente, si rende conto della complessità di tutto ciò che fa e cerca di integrarlo. Si concepisce coeso, completo e consapevole di sé. Si guarda allo specchio, vede le proprie azioni, sa che dipendono dalle sue scelte e agisce in connessione con qualcosa di più vasto. E’ il ‘principe’ convenuto . Infine, il ‘cinghiale evoluto’ si sente pienamente in contatto con ciò che decide di fare e con i propri valori. E’ pieno di interesse e ne gode intimamente. E’ magico. Il processo motivazionale sin qui delineato, è un percorso ‘fine’ che va dall’esterno all’interno, dalla regolazione di fattori esteriori, controllati dagli altri e dagli eventi, all’autoregolazione. E’ un flusso. Ora, proviamo a riflettere ‘in quale tipo di ‘cinghiale’ rispecchiamo i nostri comportamenti?’ Se siamo atleti e arriviamo a motivare noi stessi fino a raggiungere i risultati che ci prefiggiamo, e questo vale non solo nello sport ma nella vita, bene! Non ci accontenteremo di una vita ordinaria. Viceversa, se non riusciamo a realizzare i nostri obiettivi perché pensiamo che tutto ci sia dovuto e non abbiamo tempo da perdere, dovremo iniziare umilmente da lì. E cioè da un bell'esame di coscienza. Quando compiamo un’azione sportiva ci chiediamo: ‘qual è la catena di eventi virtuosi che motiva a compiere azioni efficaci? Che cosa spinge a compiere allenamenti impegnativi e/o rischiosi? Quali sono le molle che si debbono attivare da un punto di vista psicologico? Ebbene, la risposta è nell’autodeterminazione. Essa parte dalla percezione che una persona ha dell’origine del proprio comportamento e delle ‘cause primarie’ delle proprie azioni (in questo ambito, la consapevolezza dei propri processi immaginativi, sensoriali e di pensiero sono basilari). In altre parole, la consapevolezza, il ’focusing’, che innesca la catena propulsiva è la ricerca del locus of causability. Cioè, il riconoscimento dei motivi che agiscono sulle risorse primarie della motivazione. C’è sempre un’origine, un locus of causability, che può essere utile identificare e valorizzare. Per riconoscerne l’origine bisogna cercare nei bisogni psicologici di base. Essi sono: il bisogno di autonomia, il bisogno di competenza e il bisogno di sentirsi in rapporto con gli altri. Per onorare questi tre bisogni, autonomia (esigenza di percepire i propri comportamenti originati da scelte personali), competenza (interazione e in parte controllo dell’ambiente attraverso le proprie azioni e scelte) e capacità relazionale (esigenza di stabilire legami significativi), esistono interessanti procedure di Training Mentale e PNL che ne esaltano e ne sviluppano il potenziale generativo. Certo, ci sono sport dove l’interazione con gli altri è meno importante, ma sullo sfondo delle proprie azioni c’è sempre il richiamo agli aspetti che possiamo definire personali o del Sé, dove gli altri, in un modo o nell’altro, ci sono sempre. Attraverso lo sport, pertanto, appaghiamo in modo positivo dei bisogni di base, rendiamo idonea l’autoregolazione degli stati interni e influenziamo le nostre relazioni. Tutto questo avviene attraverso un processo di internalizzazione, di consapevolezza e di regolazione, che passa dalle contingenze alle pressioni esterne, fino a giungere al centro, alla taratura di spinte interne ritenute piacevoli e aderenti ai propri valori. Riassumendo, per migliorare l’autodeterminazione e, conseguentemente, l’automotivazione, occorre identificare la qualità dei bisogni di base che spingono all’azione, riconoscere e stimolare il processo di internalizzazione, agire sulle leve del piacere e aderire ai propri valori di riferimento. E non è tutto qui: ‘l’autodeterminazione può essere vista come una travolgente cavalcata che lascia senza fiato, alla fine di ogni limite superato, oltre ogni limite immaginato’. Dal punto di vista degli operatori dello sport, l’elemento di crescita più evidente è stato l’allargamento del campo di intervento di coach, counselor e psicologi dello sport. Da ormai molti anni, le competenze del coaching, del counseling e della psicologia dello sport si sono estese a due piani di intervento ben integrati: la ricerca del benessere (veicolo di salute ed energia psico-fisica di tutta la popolazione) e il raggiungimento di prestazioni di alto livello (per la preparazione di atleti e squadre). In entrambe le direzioni si sono sviluppati programmi di testimoniata efficacia. Nell’ambito agonistico si è partiti dalla preparazione mentale con interventi mirati di rilassamento e tecniche di imagery (che ne rappresentano il fondamento) e si è progrediti con modelli di intervento sempre più mirati, organici e integrati. Pensiamo, ad esempio, all’importanza delle basi psicofisiologiche del gesto motorio, alla relazione tra meccanismi percettivi, alla presa di decisione e azione nei contesti sportivi, agli aspetti motivazionali, alla leadership e alla coesione di gruppo, e alla necessaria attenzione agli aspetti organizzativi e sistemici del contesto in cui l’atleta opera alla ricerca di una prestazione sempre più elevata. Nell’ambito amatoriale, dove lo sport si allinea con la ricerca del piacere, del benessere e della salute, allo stesso tempo, gli interventi di coach, counselor e psicologi non mancano, ma si rivolgono anche e soprattutto alla formazione di imprenditori e di operatori (Insegnanti, istruttori e allenatori) di circoli sportivi, associazioni, palestre. Lo scopo è quello di promuovere non solo movimento, creatività e cultura, ma chiavi d’azione e idee per giovani e adulti che desiderano sperimentarsi, rinnovarsi, cambiare. Ad oggi, la formazione in ambito professionale degli operatori sportivi, oltre al proprio terreno elettivo, sembra ulteriormente allargarsi all’acquisizione di competenze chiave trasversali: le competenze digitali, le capacità imprenditoriali e di iniziativa, l’imparare ad apprendere, la consapevolezza culturale. La formazione, quindi, è continua come i nostri progetti. Per questo continuiamo a concretizzarli e farli crescere: ‘lo sport appassiona, innamora, seduce. Suscita emozioni. E’ un’attività che può essere fatta in modo meccanico, ma brilla e si distingue quando c’è conoscenza, estro e creatività. Quando c’è la consapevolezza del proprio essere in azione’. Ogni mare mi sorprende! Ogni dettaglio mi coglie impreparata nel suo sentimento pulito, diretto. L'acqua mi assiste nel tempo stremato; sono in pausa e senza scadenza. Nel viaggio, seppur breve, di una vacanza trovo spazi di silenzio disponibile e riabilitante. Percorrere le onde e guardare in lontananza mi avvicina a un senso che ho perduto; quello della calma che si rispecchia in una distesa di cobalto inaccessibile come certi anfratti dell'anima. In pochi istanti la mente tace. Smette di percuotere, di chiamare. Smette e basta. Sento un richiamo più immediato, che mi cattura. Quello della comprensione e un assaggio di indulgenza. Sgorga come una colata bollente, senza preavviso; mi scuote e mi turba...l'ho tenuto per così tanto tempo che adesso il pianto, mi pare incandescente mentre mi avvicino all'isola. E' un'isola anche dentro di me. Mi sento caricata di una forza bloccante e implacabile, una briglia che lega e strozza, un rimpianto indigeribile, qualcosa che nel tempo non potevo neppure sentire. Non potevo accettare. Non potevo nemmeno dire. La vita qualche volta ci inchioda come anime in un pollaio. Alla catena di sentimenti taciuti e libertà negate, controllate. Nel tempo ho perduto la sensibilità e l'amore per cercarlo ora con un fardello carico di volontà! La volontà non serve, non qui, non adesso. Ho delegato ad altri la mia ragione e valicato il pendio della confidenza, della parola. Ho trovato la mia piscina eterna, l'acqua che attraverso uno sguardo, mi fa vedere la vita in trasparenza. Cerco le origini, l'origine dell'amore perduto, decaduto....ma non il mio. Per capire bisogna viaggiare. Allontanarsi e avvicinarsi. Perdere e perdersi. Per comprendere ho dovuto venire fino a qui. Per sentire con le tue mani. Nel mare lontano dell'uomo che mi ha generato, nel ventre di un vulcano che si inabissa per oltre duemila metri (nell'anima!), sento crescere tutta la mancanza, la tua e la mia. Tutta quella che non sapevo dove mettere. Tutta la potenza del legame e degli elementi. Mi spoglio dei pensieri, mi squamo di ogni scaglia di civiltà, mi privo di ogni peso. Nudo come un uccello mi tuffo proprio lì, nell'abisso che precipita, trasparente e livido. Mi tengo abbracciata al mio respiro. Da qui dentro, papà, non faremo più ritorno! Si cambia, si evolve, si raggiunge un traguardo e si ricomincia da capo. Ricomincia la stagione agonistica e vuoi per la situazione societaria, vuoi per le incertezze sul futuro, vuoi per la mancanza di un progetto chiaro, i tempi e gli allineamenti astrali sono confusi. Quando le aspettative nuotano nello stagno, ci si trova smarriti e senza certezze. E anche se si è bravi, ma gli equilibri sono instabili, non basta rimboccarsi le maniche. Siamo a questo punto, per riprendersi più forti e determinati della stagione appena conclusa, è necessario ricominciare in maniera diversa, sotto un’altra luce, con un altro spirito. Succede a molti. Una vita dedicata alla professione, a far crescere un ambiente, a far parte di un’elite che, nel bene e nel male, si è sempre assunta tutte le responsabilità fino in fondo e ‘boom’: i problemi diventano scuola di apprendimento, invadono i sogni e si ricomincia da capo. Si ricomincia dalla vita e dalla normale organizzazione quotidiana. Si tratta di riconoscere che anche nelle difficoltà più profonde c’è sempre un filo che non si interrompe. Possiamo essere in una condizione di completa orizzontalità e passività, ma quel filo è presente e ci guida alla verticalità, verso l’alto, verso la ripresa. Va colto con un misto di intuizione e di pragmatismo. E allora in piedi, su le maniche, ben focalizzati e pronti a dire la propria sul campo e fuori, coerenti con le proprie decisioni e scelte. Servono tre esercizi: di riflessione, per la ricerca delle proprie attitudini; d’impegno, per affrontare i propri compiti in qualsiasi veste si presentino; di rinuncia alle proprie effimere immagini di successo. Se si riesce ad iniziare da capo, con questi tre presupposti, questo è davvero un buon passo. Tirare fuori il meglio dal proprio corpo e trasformarlo in forza, in flessibilità, in resistenza … in musica del movimento. Questo è lo scopo delle discipline di frontiera. Quando osserviamo persone intente a marciare, correre dietro un pallone, andare in bicicletta, nuotare, gareggiare. Quando ci entusiasmiamo nelle manifestazioni da medaglia e cantiamo l’inno nazionale, partecipiamo a qualcosa di speciale, che non serve a niente, apparentemente, ma che esplora la capacità di sopportare la sofferenza, il sacrificio, il dolore e di raggiungere qualcosa di intangibile per individui che scrivono un romanzo senza uguali. Le prove che si affrontano, che si superano e spronano, pungolano la nostra forza vitale a ricercare qualcosa da provare, da vedere, da sfidare. Ci invitano a trascendere i nostri confini corporei e a sperimentare una fluidità speciale come quella del corridore con il vento, del ginnasta con il movimento atletico, del nuotatore con l’acqua, del volovelista con le correnti, dell’apneista con la profondità. Questo stato è il flow. Da una parte è uno stato psicologico che si sviluppa a partire da un completo coinvolgimento di tre fattori: attenzione, compito, abilità. Dall’altra, rappresenta il complesso equilibrio tra sfida e capacità, controllo degli automatismi e coinvolgimento totale. Il flow implica consapevolezza e attenzione al compito. Va ricercato, va allenato, va sperimentato. Lo stato di flow deforma la percezione dello spazio tempo. Si superano i confini della coscienza e si esplorano diverse soglie mentali. Si tratta di cogliere le porte di accesso a questo stato, che sono diverse per ciascun individuo. A volte basta essere presenti a sensazioni, gesti e movimenti (stato fisico), talvolta a pensieri e immagini interiori (stato psico-emotivo), talaltra al compito (stato progettuale). Si entra in un portale e lo stato flow diventa una complessa meditazione ‘fai da te’. Come mai si è fatto prima. Sempre diverso e speciale. Pertanto, anche da sedentari, seduti sul nostro divano, possiamo alzarci e, tra un impegno e l’altro, pedalare sulle tracce della natura, di un fiammante progetto e, soprattutto, di un ‘nuovo’ cervello. Ho imparato l'apnea quando ero appena una bambina. Di notte nel mio letto, chiudevo gli occhi al buio dei pensieri; trattenevo respiro e sentimento e restavo lì, nella pace. Il torace illuminato da una sensazione brulicante; era il tempo del piacere senza domande, il tempo sospeso privo di attesa, il tempo di un bambino. Dentro a quel tempo e a quel respiro mi sentivo sicuro, a casa. Negli anni poi ho praticato l'apnea agonistica, la dinamica, il costante; mi sono immersa fuori e dentro di me. Ho partecipato alle gare, mi sono misurata, ho affinato la tecnica ma quel tempo ahimè l'ho perduto nell'infanzia. Oggi è una stagione di cambiamento. Sto varcando delle porte di comprensione e proprio in questi giorni ho sentito l' esigenza di dare una forma che lo rendesse autentico. Un segnale di ritorno alla vita. Scendo in vasca un po' incerta ma mi affido all'acqua calda con delicato piacere. Armando ci ha preparati bene ma non sono sicura di aver colto perfettamente quanto abbiamo provato in aula. Il corpo è presente, da quando immergo la punta dei piedi, mi invade una sensazione morbida. Una specie di attenzione naturale che mi sfiora la pelle e la abita. Faccio il rituale saluto all'elemento. Quando è così non ha alcuna importanza dove e con chi mi trovo, siamo io e lei. Appoggio le labbra sullo sfioro dei due mondi. È un bacio di passione,di amore vero. Lascio che entri nella mia bocca e delicatamente dischiude la mandibola, mi accarezza la lingua che si accomoda sul fondo arresa al sentimento. Mi spoglio (cuffia,occhialini). Via gli orpelli che mi separano dall'entèe, come un gesto di riguardo per quello che mi accingo a fare. Ma cosa devo fare? Decine e decine di volte ho praticato la statica utilizzando diverse tecniche e modalità per entrare in uno stato di benessere dove gestire le sensazioni anche quelle meno piacevoli, quando arrivano. E arrivano!!!! Questa volta è diverso. Sono già in una modalità protetta e il sentimento che mi accompagna è una serenità goduta che contatta un mondo nuovo. Qualcuno mi parla ma le parole si flettono come le fronde degli alberi; solo mi sfiorano. Non mi importa cosa penserà di me l'interlocutore, io sono muta nel mio ascolto. Per la prima volta dopo molto tempo sento di non avere obblighi, non c'è urgenza. Non mi devo neppure ventilare. Trovo una posizione non proprio consona ma in questo momento mi sembra buona. A pancia in su ho il viso completamente immerso. Resta fuori solo la bocca. Il mio corpo forma una specie di parabola. L'acqua si appogia sulle palpebre schiuse ed entra nelle narici. La accolgo, la saluto...adesso sono di lei. Il percorso dell'aria mi fa sorridere. Mi sento lo strumento che collega i due mondi, dentro e fuori. Sono un ponte. I polmoni immersi nella cassa toracica che affonda ed emerge a sughero, fa capolino. Le costole salutano il cielo. Il respiro mi percorre, lo sento uscire dsll'alluce sinistro come un flusso trasversale. È strano. Non mi do tempi, non debbo mettere alcuna volontà. Semplicemente lascio che entri ed esprima un ritmo. Per gli istanti che seguono non so bene quante sono le inspirazioni, non partecipo; 'è l'aria che decide' mi dico. Decide dove andare e quanto sostare. Ma dove va? Accarezza l'ombelico teso, mi solletica. Un' area che di solito è sorda. Si allarga dietro in un abbraccio lombare. Il mio corpo è anbandonato come una foglia. Senza esitazione sento il desiderio di entrare quindi viro in avanti come un pendolo e mi immergo. Resto abbracciata all'abbandono senza intento. La prima sensazione è caraibica; un verde smeraldo abita i miei occhi che cedono la tensione e sembrano cadere sul fondo. Il silenzio è irreale, quasi astratto. Come se l'umanità intera fosse in silenzio. Mi sento felicemente sola e unita. Viro dentro a un vortice tiepido di piacere. Non proferisco parola, non oso interrompere per mettermi a cercare. All'altezza del torace dei cerchi concentrici si generano come un suono. È una musicalità che non ho mai udito. Da immagine diventa vibrazione ma la posso vedere. Vedo il mio respiro, lo posso sentire catturato nell'addome e sta lì sospeso. Fluttuante dal torace si sposta più in giù. Porto l'attenzione fra le dita dei piedi e le percorro una ad una ma da dentro. La vibrazione si fa più viva e le parole arrivano generate da quei cerchi. Ogni parola ha un tempo lunghissimo, è quasi irriconoscibile. Amore! Non penso all'amore, non ci sono volti qui. Ma in quella distesa celeste vedo un puntino bianco come se un occhio da molto lontano mi guardasse. Sono in un oceano di acqua immobile e la mia schiena pallida emerge al sole. L'amore è una conchiglia puntata appena sopra l'ombelico, pulsa verso l'interno e mi riscalda. Piacere. È ancora più lento ma con un tono più basso e si dirige verso le cosce, le avvolge come una calza. Il coraggio esce dallo sterno e mi flette le braccia leggermente verso il basso, come una piccola scossa. Sento le dita più morbide, oppure soltanto le sento. Natura. Sprigiona la prima contrazione che scende dallo stomaco alle pelvi. Poi altre due ravvicunate come se qualcuno bussasse alla porta. La apro e lascio andare. Sono un lupo nudo che corre sulla cresta della montagna. Nudo e libero. Il tempo si è spezzato del tutto,la bestia fa la spola a un ritmo sempre più presente: vetta - piedi, bosco - cosce, neve - pelvi, roccia - spasmo, salto - torace, corre libero sulle vertebre...è sempre più piccolo visto dall'alto. Sempre più in alto. Sono qui e li. Dalla lingua avverto il sapore dell'acqua, schiudono gli occhi e mi sento rovesciata. Veramente i miei occhi sono sul fondo della piscina! E' il momento di ritornare. Ruoto su me stessa e ritorno alla posizione iniziale a parabola. Un singulto esce dalla gola, come un pianto trattenuto, un verso antico; il battito forte e vivo nel mio petto. L'aria riprende fresca a percorrermi trasversale. Sono nato! Sono nato ancora; magia di madre apnea. Perché partecipare a un'esperienza di Training Mentale e Apnea Healing? Questa esperienza è unica nel panorama italiano ed è stata pensata per tutti coloro che hanno a che fare con le persone, lo sport, la salute, la crescita personale e professionale. Istruttori, insegnanti, atleti, manager e altre professioni ancora, che hanno in comune le stesse domande: come faccio a prendere le giuste decisioni? Come posso motivare me stesso ed i miei studenti, atleti, collaboratori? Riuscire a modificare le cose? A realizzare risultati sportivi? A lavorare in modo più efficiente? E a offrire una immagine di me più umana e professionale? Cosa mi rende felice? Che cosa voglio nella vita? Cosa troverete in questa esperienza? Esercizi pratici e modelli di azione che vi aiuteranno a trovare le risposte a queste domande. Alcune tecniche sono note (il respiro, il rilassamento, l’apnea, l’autocontrollo), altre meno, per la loro evoluzione e per gli stimoli che offrono alla riflessione e alla crescita personale (strategie per la gestione del pensiero, il cambiamento di credenze e abitudini, le qualità personali ed i valori). Vi approprierete di conoscenze specifiche per sapere con esattezza cosa è il training mentale, il training autogeno, il training corporeo, la visualizzazione e come realizzare il rilassamento sensoriale, il controllo dell’attenzione, la modificazioni di certi stati mentali critici o come gestire situazioni conflittuali. Come si utilizza questa esperienza? Il corso è stato concepito come un metodo di esercizi pratici. Si sperimentano, si commentano, si adattano alle proprie esigenze e si sviluppano ulteriormente. Indipendentemente dal loro utilizzo, per una prova o una gara, una presentazione o un colloquio, mentre decidete un cambiamento o mentre risolvete un conflitto, questo percorso di tecniche e strategie, costituirà una guida preziosa per trovare in autonomia le vostre migliori risposte. In pratica quasi tutti sperimentiamo ogni momento un flusso continuo di immagini, suoni e sensazioni che ci attraversano la mente. Questo flusso crea di tutto: gialli, commedie, film dell’orrore, storie d’amore, completi di pubblicità e di annunci. E dato il forte legame tra immaginazione e sentimento, le immagini mentali negative interferiscono con la nostra attenzione e, in definitiva, con le nostre prestazioni. L’alternativa a tutto ciò è la ‘visualizzazione creativa’ e consente di alterare le immagini e modificare di conseguenza i nostri sentimenti. Come si usa? Inizialmente, occorre creare i presupposti di un adeguato stato di rilassamento. Poi, scegliendo uno dei sensi più familiari, ci si addentra in un’immagine mentale desiderata, ricca di qualità sensoriali (suoni, odori, immagini, sensazioni, movimenti). In seguito, si inizia a scegliere cosa osservare e a cosa prestare attenzione, allenandosi a modificare le qualità percettive di ciò che si esplora: le submodalità. Successivamente, si nota se stessi nell’atto di apprezzare il risultato desiderato, esaminando azioni e reazioni. Senza giudicare, ma mettendo le mani, letteralmente, nella propria idea. Più avanti, si immagina che la scena desiderata avvenga in un determinato luogo ed ora. Tutto questo, rappresenta uno stimolo potente all’automotivazione. Ma è bene iniziare da obiettivi misurabili, concreti e positivi. In una parola, semplici. Il primo allenamento, allora, è quello di ridurre l’incertezza dei propri proponimenti, sostituire immagini e pensieri negativi, scambiare le convinzioni limitanti e renderle accettabili ai cambiamenti desiderati. E per questo serve molto esercizio. Quando si tratta di realizzare un proposito sportivo occorre immaginare una gamma di scenari specifici, a cominciare dal risultato ideale che si auspica di ottenere. Ma contemporaneamente occorre anche tenere conto del ‘venerdì’, cioè di cosa può andare storto, per esserne adeguatamente preparati. L’importante è trovare un buon equilibrio tra fiducia, motivazione, aspettative, risultati, accettazione delle conseguenze. L’immaginazione mentale inietta freschezza, vivacità e vitalità in quello che altrimenti sarebbe un allenamento da sauna, il quale, da solo, non consente di esplorare i paesaggi e gli spettacoli esistenti nella nostra mente. Se un atleta dovesse fare sul serio, in certi periodi di intenso lavoro dovrebbe tenere nel salotto di casa o appeso al muro l’oggetto della sua attività: un ostacolo, una scarpa, una pinna, un pallone, un modellino, e così via. E mentre è intento a fare qualsiasi altra cosa, dovrebbe fermarsi di tanto in tanto, guardare l’oggetto e immaginare l’azione che lo riguarda. Non solo dovrebbe vedere i gesti corretti ma anche l’evento nel suo complesso compreso il risultato finale. Cioè, immaginare come vuole che vada a finire la sua impresa. La faccenda suona un po’ ossessiva, mi rendo conto, ma qualcuno lo fa e raggiunge due interessanti obiettivi: si motiva, vedendo se stesso in azione attraverso la rappresentazione delle proprie immagini e fa svolgere al proprio subconscio un lavoro mirato. La capacità di dirigere la propria immaginazione e produrre immagini mentali, influenza il nostro intelletto, i nostri sentimenti, i nostri corpi, tutto il nostro essere. Quando visualizziamo qualcosa, il legame tra immagini e sentimenti è potente. Le emozioni reagiscono alle immagini perché sono una mappa della realtà psichica. E anche se le immagini sono simulate o non ancora realizzate, per la mente sono un dato di realtà. Sono vere! Sta a noi scegliere, nel flusso ininterrotto delle rappresentazioni, delle gioie e delle delusioni, dei ricordi e delle aspettative, ciò in cui desideriamo credere e concepirle nella vita. E’ un parto di realtà. La visualizzazione e le immagini che ne derivano, sono il cuore della nostra esperienza personale e ci aiutano a creare il nostro mondo interiore: esercitano un potere enorme sul nostro benessere e/o malessere. Il nostro obiettivo di formatori nell’ambito di un addestramento mentale è quello di realizzare una congruente flessibilità emotiva, attraverso il corretto uso delle immagini. Un breve esercizio può aiutarci a capire meglio la realizzazione di questa ‘flessibilità emotiva’. Proviamo a rilassarci e ad immaginare una sedia. Prima vediamola in un contesto strano. Un posto dove accadono cose esilaranti. Lasciamo libera la fantasia e probabilmente vedremo la sedia volare, rompersi, ricomporsi e lasciarci una sensazione di creatività, di sollievo, di allegria. Proviamo poi a vedere la stessa seggiola in una situazione tragica e avremo tutt’altre sensazioni. Ci sentiremo depressi, immersi nella sconvolgente atmosfera di dolore. Alterniamo i due scenari e scopriremo che abbiamo il potere, almeno lì, nella fantasia, di scegliere come vogliamo sentirci. L’immaginazione è lo strumento che dialoga con le forme della consapevolezza: è arte allo stato nascente. Quando un atleta si sente bene, non è difficile ipotizzare che il suo dialogo interiore sia: ‘sto bene!’, ‘sono il più forte!’, ‘non temo nulla!’. Ed è probabile che le affermazioni delle sue buone performance suonino come ‘miracoli’ o più amorevolmente come ‘miracolilli’, in più di un’occasione. O, giocando con se stesso e confrontandosi con gli altri, ironizzi, alla ’Conan il barbaro’, di quanto sia forte e imbattibile. E’ uno stato mentale che risuona in un corpo che è: vivo, forte, veloce. I movimenti sono talmente armonici e rapidi che la concentrazione è quella di essere a casa, nei propri piedi e gambe, nel respiro e mani, ma senza pensieri. In ogni azione domina l’intensità dei gesti, con la mente in uno stato di vuoto leggero e le mani a muoversi nella spensieratezza delle danze naturali. Stare bene, è spensieratezza allo stato puro, è un esserci/non esserci, è la porta di uno stato di flow naturale, perfino troppo ‘facile’. Se si sta bene, appunto. E se si sta male? Cosa succede a tutte queste belle sensazioni? I pensieri sono: ‘sto male!’, ‘sono sotto un treno!’, ‘non riesco!’. La mente è stanca come il corpo ripiegato su se stesso, debole e pesante. Le sensazioni gravano sul torace e l’energia scivola dentro un vaso a perdere. La bocca è impastata e i pensieri hanno una voce alitante e fastidiosa. Brutta faccenda quando le cose vanno così. Ma che fare? Assecondare i malesseri e giustificarsi con la stanchezza, il periodo, il sistema, o agire su questi processi interiori? Cominciando a spostare quei pensieri fino a introdurli in una scatola; uscendo da uno stato di ripiegamento con un voce di richiamo; muovendo, con le mani, quel peso sul torace; si riaccendono i fili della comunicazione con l’ambiente, la prestazione e con se stessi. Se si riesce a farlo, cioè di modificare con azioni consapevoli le percezioni, l’orologio mentale non fa più quel tic tac, noioso e apatico; le sensazioni ansiose svaniscono e con esse i pensieri di un cervello caduto nell’inverno; e si ritrova la creatività dell’attenzione, dei gesti, del gioco, della gara, del sole dentro. Una pienezza dell’essere attivi, dell’'andare verso' e del cercare il ritmo dei risultati che fa rima con ’felicità’. Finalmente! Mare, terra, aria. Ho avuto il privilegio di seguire, come psicologo dello sport, la subacquea dei campioni e degli amanti del mare, la nazionale di ‘Volo a Vela’ e tanti atleti e squadre di varie discipline, compresa la barca a vela. Nel 2000 ho partecipato ad un progetto di sicurezza in mare, la simulazione di un naufragio volontario di 48 ore, coordinato dalla Guardia Costiera della Liguria, su una zattera autogonfiabile, che aveva lo scopo di verificare dotazioni di sicurezza e soccorso in mare. Da dieci anni ho la patente nautica, oltre le 12 miglia, e ho seguito varie aziende ed i loro manager nei percorsi di formazione sulla comunicazione efficace outdoor in barca a vela. Le parole chiave di questo lungo percorso sono state consapevolezza, profondità, spazi, altezze, sicurezza, esplorazione, ricerca. Fatta questa premessa, rispondo volentieri alla domanda dell’amico Attilio di Scala, che mi chiede di esprimermi sui benefici psicologici che si possono attribuire alla pratica della barca a vela. E non faccio fatica ad identificarli. Molti studi autorevoli ne hanno distinto i vantaggi. Però sono sottili, sono emozionali, sono psicologici e come tali sono contestabili da ogni operatore di mare esperto che può ironicamente definire ogni ‘vento della psicologia’ come una moda o come un disturbo alle cose che contano: pratica, pratica, pratica. Per l’esperto velista, acquisite le necessarie competenze, i problemi sono solo quelli veri, del mare, non quelli psicologici; è il mare colui che dice cosa fare; l'insicurezza o la debolezza sono solo un difetto di preparazione; solo la persona conosce i propri limiti e le proprie capacità; si deve addestrare alle emergenze e avere la prontezza nelle decisioni; la padronanza si sviluppa con la conoscenza del vento, delle vele, degli strumenti. Tutto il resto è noia o ‘fuffa’. Eppure, non è più così. L’esperienza pratica acquisita con la barca a vela è assimilabile ad una seconda pelle della consapevolezza. La pratica della vela, allena l’attenzione, la concentrazione, la memoria, il controllo delle emozioni, le decisioni, le conoscenze, sia come processi automatici sia come interfaccia degli aspetti evolutivi della coscienza. Se devo identificare le differenze tra le due modalità, acquisizione degli automatismi e attenzione agli aspetti psicologici, trovo dei benefici nell’una e nell’altra modalità, ovviamente. Naturalmente privilegio il veleggiare nei propri processi interiori mentre si agisce sul comportamento, nella relazione con le cose, con se stessi e con il proprio sentire. Per cui, immagino che, mentre si solca il mare, la mente dispieghi le sue vele e percepisca l'armonia di un corpo che ritrova un pieno contatto con la sua natura. Anche in questo momento, ogni cosa su cui posiamo la nostra attenzione (lo schermo del computer, la mano che digita, lo sfondo della stanza, etc.) può essere osservata e studiata attentamente e trattenuta mnemonicamente. Possiamo chiudere gli occhi e ricordare la cosa appena vista ricreandola mentalmente nei minimi particolari. Possiamo pensare alla cosa come ad una fotografia fedele, ma accade qualcosa di più. Possiamo vedere dettagli che ci sono sfuggiti o addirittura possiamo arricchire o creare nuove immagini della stessa cosa. L’immaginazione diventa uno strumento di creatività formidabile. Parte da un’imitazione interiore e arriva alla rappresentazione di un oggetto sensibile o alla figurazione di un concetto astratto. Ci aiuta a osservare la realtà fedelmente e a riprodurla, ma ci aiuta soprattutto a creare associazioni, ad usare il linguaggio dei sensi e a dialogare con il subconscio. Ci aiuta ad esplorare la consapevolezza e a trasformare la realtà in modi nuovi. L’immaginazione, il pensare per immagini, il mondo dell’immaginazione, rappresentano un affascinante campo di esplorazione per ognuno di noi, e va allenata. Questo allenamento si chiama visualizzazione. Ciò che fa la differenza nella capacità di visualizzare è la nitidezza (il grado in cui un’immagine appare chiara, nitida, eidetica, ‘viva’) e la controllabilità (il grado in cui l’immagine è costante, durevole e fedele). La visualizzazione è allenabile in particolari condizioni di rilassamento fisico, emozionale e mentale. Lo scambio ferroviario tra veglia e sonnolenza, è un processo che va cercato con naturalezza, va respirato e annusato. Pensiamo alla cena di ieri sera. Bastano due minuti. Ricostruiamo la scena: visualizziamo le persone, l’ambiente, la disposizione dei posti a tavola, le voci, il sapore dei cibi, i rumori. Siamo lì, siamo dentro. Ci apriamo all’atmosfera dell’amicizia, gustiamo i cibi con lentezza, vediamo particolari che ci sono sfuggiti, sentiamo le emozioni riempire l’aria. Ci diamo il tempo di esaminare ogni dettaglio. Ma soprattutto possiamo nutrirci di condizioni speciali per veleggiare in altri lidi e focalizzare ciò che più conta per noi: la consapevolezza, le cose che ci fanno sentire realizzati, i sogni che concretizziamo. Ogni individuo è diverso ed i problemi che si affrontano in talune consulenze, non possono essere ricondotti ad un metodo valido per tutti o riproducibile per un ragazzo o un adulto e le loro varie tipologie. I problemi o intere categorie di problemi hanno bisogno di molteplici conoscenze. Tuttavia, uno degli scopi primari di un colloquio è quello di creare un’atmosfera in cui lo sportivo possa acquisire insight e cominciare a orientare atteggiamenti, mete e vita, attraverso una situazione di ascolto e di chiarificazione. Il colloquio con uno sportivo necessita dunque di alcuni requisiti: una presenza attiva, una ricezione delle istanze concreto, una osservazione imparziale, un pensiero senza preconcetti, un ascolto autentico. Il tutto tendente a favorire quel background dove i temi espressi nella loro reale o apparente specificità, possano trovare un appropriato vocabolario espressivo. Quando un atleta chiede di poter parlare con qualcuno il terreno è fertile. Se è orientato alla soluzione dei problemi, cercherà risposte. Se ha una coscienza matura dei propri processi soggettivi riconoscerà che avere un problema pratico non vuol dire ‘dilemma banale o facilmente risolvibile’. Può riconoscere che un problema non è scontato e che richiede tutta la sua attenzione. Non è facile possedere una visione generale dei propri problemi. E’ più facile banalizzare o schematizzare. Oggi su internet c’è la sagra di risposte a qualsiasi quesito, ma proprio per questo il colloquio deve poter favorire la verbalizzazione di atteggiamenti e comportamenti, con una particolare attenzione ai sentimenti. E il clima del colloquio come lo si costruisce? Si parte dalla visione generale dei problemi per riconoscerne le differenze; si cerca di comprendere come mai, proprio ora, certe cose si sono acutizzate; si riconoscono i blocchi e le loro estensioni invalidanti; si analizzano i sentimenti positivi e negativi; e si individuano le capacità dell’Io di far fronte al/ai problemi. E’ all’interno di un clima collaborativo che possono essere chiariti gli atteggiamenti relativi ai problemi. Il modo in cui essi vengono espressi, prima come semplici disagi, poi come sintomi veri e propri e successivamente come tensioni interiori, o viceversa, rivelano il chiaro progresso di un colloquio attento e prudente, ma mai banale. L’ambito sportivo è uno dei contesti più interessanti dove una persona può dirigere le proprie attitudini verso fini costruttivi. Lo sport invita all’apprendimento attraverso il gioco, l’adattamento alla realtà e all’impegno verso il risultato. Richiede l’impiego di metodi e tecniche efficaci. Non fa sconti. Se un metodo funziona si impone con i risultati. Se una tecnica è inefficace, si cambia. I metodi utilizzati dagli allenatori, a seconda della disciplina praticata, variano continuamente e ci sono alcuni modi di fare che hanno effetti vincolanti e limitativi. Vediamone alcuni. Ad esempio, ‘screditare’ un comportamento. Controllare, avvertire o minacciare qualcuno di smetterla, altrimenti … talvolta sembra funzionare. Ma più il clima è di costrizione, più si stringe il pugno, più si agisce sui comportamenti superficiali. Funziona lì per lì. Talvolta, funge da stimolo per il singolo, ma questa modalità trova sempre meno spazio nella gestione dei gruppi. ‘Esortare e motivare’ è un metodo eccellente quando l’atleta è vincolato alle sue buone intenzioni. Provoca una intensa emotività e ‘inchioda’ l’individuo alle più alte vette dei suoi buoni propositi. Il problema sono le ricadute: le esortazioni, i voti e le promesse non sono sempre in grado di determinare cambiamenti reali e duraturi. ‘Suggestionare’, nel senso di dare rassicurazioni e incoraggiamenti verso il miglioramento ed i progressi, è utile, ma bypassa i problemi, non tiene conto dei sentimenti dell’atleta, e si focalizza sul risultato. E’ ovvio che un tale metodo ‘repressivo’ alla lunga riduca i suoi effetti pragmatici. ‘Ascoltare le confessioni’ dell’atleta, o discutere dei suoi problemi, aiuta a comprendere e liberarsi da paure recondite e da sentimenti di inadeguatezza. Va da sé che un coach non possa fare lo psicologo di turno, ma può favorire, attraverso forme di gioco, videoanalisi e azioni di ruolo, una positiva reazione sui comportamenti improduttivi. Un’ultima pratica molto frequente è quella di ‘dare consigli e persuadere’. Si usa quando si vuole intervenire su dinamiche in atto con lo scopo di indirizzare i comportamenti. Tutti questi metodi sono efficaci in qualche modo. Spesso e volentieri, i preparatori si interrogano e trovano utile capire gli effetti dei loro metodi comunicativi sui risultati che ottengono e sui valori che trasmettono. |
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