Tuffarsi in acqua è una potente metafora del guardarsi dentro. Cosa sono le sedute individuali di psicologia per un subacqueo? Cosa rappresentano? Che utilità possono avere nella formazione di un allievo o di un istruttore. L'Apnea è ascolto. Nel silenzio creato dall'acqua, il corpo si trova nell'abbraccio di un involucro estraneo, non abituale; nemmeno il respiro - nostro inseparabile compagno - può ricondurre ad un contatto con la realtà esterna. E mentre i sensi risultano attutiti, si fa più intensa la percezione di noi, del nostro tessuto psico-emozionale. Il contatto con il nostro Io si fa profondo, emergono sensazioni sconosciute, dimenticate, ignorate; talvolta si evidenziano blocchi emotivi che gravano sul nostro modo di agire e reagire. È dunque la scoperta di un mondo interiore e contemporaneamente della propria interezza; la nascita dell'individuo consapevole, integro, che riconosce nel proprio corpo e nei segnali che esso trasmette, l'espressione della propria fisicità ma anche dell'emotività. Nello stato di apnea infatti è possibile rivalutare la capacità comunicativa del corpo, da interpretare alla luce del vissuto culturale ed affettivo. Nel limbo liquido che avvolge e permea come il liquido amniotico, l'individuo che ascolta con disponibilità ritrova (o scopre con meraviglia) se stesso, e rinasce, ma questa volta come individuo completo e consapevole. Il corpo diviene interfaccia creativa dell'interiorità, momento di contatto con il Sé, strumento di conoscenza, ed è sollecitato ad affrontare le eventuali condizioni di inibizione dell'espressività e quelle rigidità e quei controlli autorepressivi che ne scaturiscono. Esso passa da una condizione di chiusura ad uno spazio di possibile apertura, al superamento di blocchi muscolari che impediscono l'esternazione delle emozioni. È possibile in tal modo comprendere i meccanismi psicologici e le peculiarità caratterologiche ad essi connesse, superando quella staticità e quella instabilità emotiva che non solo costituiscono un ostacolo per la prestazione sportiva, ma che influiscono pesantemente anche nel quotidiano. Nello stato apnoico scopriamo che esiste una corrispondenza tra sofferenza fisica e sofferenza emotiva: questa consapevolezza può rappresentare il punto di partenza di un profondo lavoro organismico che avrà come scopo ultimo il superamento dei blocchi e delle inibizioni. Per questo l'apnea ci appare ascolto: un lungo e fecondo percorso introspettivo, alla scoperta della propria identità. Alla luce di queste considerazioni, il training psicologico rappresenta in questa disciplina un completamento della fase di preparazione. Se l'atleta si trova di fronte alla necessità di esprimere la propria unità psico-corporale, è indispensabile - come ricordavamo poc'anzi - partire da questo senso di unità e da esso sviluppare un equilibrio ed una compattezza che non possono che essere della personalità nel suo complesso, al fine di ottenere l'ottimizzazione delle proprie potenzialità. La psicoterapia aiuta a definire questo percorso verso la coscienza, a decifrare i messaggi del nostro Io, per interpretarli, esprimerli, valorizzarli, sviluppare la capacità di agire, abbandonare concetti e pensieri abituali per esprimere la propria creatività. Essa ci offre gli strumenti per l'ascolto e la chiave di interpretazione per iniziare un approccio costruttivo che richiede un intervento sul corpo, sul respiro, sulla mente per utilizzare in modo completo le risorse intime, per esercitare il controllo sui processi emotivi, ritrovare la propria libertà di espressione, l'autenticità, la centratura. Attraverso l'insegnamento dell'uso mirato di tecniche di introspezione, di consapevolezza, di rilassamento e di visualizzazione si sviluppa una vera e propria disciplina interiore che aumenta il potere personale, l'autostima e la fiducia in se stessi permettendo così il pieno sfruttamento dei fattori esterni favorevoli, guidando la mente verso pensieri e dunque atteggiamenti positivi e propositivi. Concentrando l'attenzione al qui e ora, alla confluenza e alla realizzazione delle proprie aspirazioni e della propria emotività si ottiene di recuperare il senso di contatto con il Sé e con l'acqua, di eliminare gli automatismi e sviluppare una coscienza non più esclusivamente istintuale ma critica ed attiva.
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La preparazione del singolo atleta segue un percorso psicologico nel quale si ricercano le risorse e i limiti combinando due forme di intervento estremamente efficaci. L'approccio corporeo, che aiuta a modificare la relazione e il dialogo corporeo mediante la consapevolezza di azioni e reazioni. Favorisce il rilassamento mente e corpo, per sentirsi meglio, per riflettere con lucidità e per prendere decisioni più ‘sentite’. L'approccio cognitivo-comportamentale, aiuta a riconoscere i pensieri ricorrenti, gli schemi fissi di ragionamento e di interpretazione della realtà, le emozioni negative sottese ai vissuti personali, a correggerli, ad arricchirli e a integrarli con pensieri oggettivi e comportamenti più funzionali al benessere della persona. L’obiettivo dell’intervento individuale consiste nel mettere al servizio del risultato agonistico l’efficienza della persona attraverso l’equilibrio di tutta l’unità di azione che esso è, come individuo e come atleta. L’integrazione di questi strumenti aiutano a risolvere in tempi brevi molti disagi personali. Il trattamento che proponiamo è: Scientificamente fondato. Il metodo integrato cognitivo-comportamente e organismico costituisce in intervento efficace per rafforzare i propri equilibri psicologici e comportamentali. Orientato allo scopo. Fin dai primi incontri si lavora insieme all’atleta per stabilire gli obiettivi e formulando un piano di intervento adatto alle personali esigenze di ognuno. Nel corso del trattamento vengono verificati i progressi in modo da controllare la ragionevolezza degli scopi e i risultati raggiunti. Pratico. Lo scopo del trattamento si basa sulla risoluzione dei problemi psicologici concreti. Alcune tipiche finalità includono la gestione dell’ansia da prestazione, la riduzione dei sintomi depressivi, l'eliminazione degli attacchi di panico, il controllo dei disturbi alimentari, la promozione di efficaci strategie di consapevolezza ed efficienza, con se stessi e nelle relazioni con gli altri, ecc. Concreto. L’attivazione di tutte le risorse dell’atleta avviene attraverso la messa in azione di valide strategie che possano essere utili a liberarlo da corto circuiti psicologici, cercando di ottenere dei cambiamenti positivi. Attivo. Il ruolo del terapeuta e dell’atleta è attivo. Il terapeuta cerca di insegnare ciò che conosce e le possibili soluzioni ai problemi emersi. L’atleta, a sua volta, lavora al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica le strategie apprese in terapia, svolgendo dei compiti che gli vengono assegnati volta per volta. L’intervento del terapeuta non è solo attivo relativamente alla risoluzione di problemi, ma è anche "psico-educativo" nel senso di stimolare la maggiore partecipazione possibile dell’atleta. Collaborativo. Atleta e terapeuta collaborano insieme per capire e sviluppare in tempi relativamente brevi strategie che possano indirizzare alla risoluzione dei problemi. Dove l’atleta si impegnerà a scoprire le sue aree di miglioramento, il terapeuta favorirà il riconoscimento delle modalità di pensiero o di comportamento inefficaci e le relative reazioni emotive e comportamentali dissonanti che sono causa di sofferenza. A breve termine. Questo tipo di intervento psicologico è a breve termine, ogni qualvolta sia possibile. La durata varia di solito dai tre ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale. In apnea, come in altri sport, i risultati agonistici, a meno che non si sia dei superdotati, non sono quasi mai cristallini e progressivi. Ed è un bene, secondo me, per la crescita psicologica che ne consegue. Gli equilibri a zig zag di preparazione muscolare, tecnica e mentale, non sono quasi mai lineari. A volte prevale una componente rispetto alle altre e solo il tempo le integra tutte, soprattutto quella mentale. Di sicuro, per un apneista che ce la mette tutta, le analisi scavano buchi nel cercare di far emergere in ogni allenamento e gara, la voglia di gareggiare (‘dai che ce la fai!’) e il desiderio di fare sempre meglio (‘chissà come sarà oggi?’). Ma non sempre è così, appunto. Di gara in gara, si avverte la prepotenza di ogni minimo disequilibrio e ci si interroga su cosa ci sia di buono nel malessere, nella sua gestione o nel raggiungimento di una performance ottimale. Si fanno allenamenti che funzionano, si ‘tira’, e poi qualcosa si rompe. Accade qualcosa di ‘troppo’ che si fa sentire con sensazioni spiacevoli. A volte è il corpo che non reagisce come vorremmo: l’attivazione è scarsa o bassa, c’è paura e ansia, in acqua si scivola di meno, c’è fame d’aria, si soffre. Il più delle volte però è la mente che non reagisce bene, i pensieri si infiltrano fino a rimuginare il rifiuto: ‘ma chi me l’ha fatto fare?’ Un evento casuale, una preparazione non perfetta, una procedura non rispettata, una samba, un blackout, mettono in crisi mesi e anni di sforzi. L’apnea del divertimento e dell’interesse, vanno a farsi benedire. E tutto questo, perché? Si passa dalla voglia di fare del proprio meglio, allo stare sereni, senza aspettative e soddisfatti di un 6 politico, fino all’ingiunzione di un ‘hai appena fatto una parte del tuo dovere. E se non hai fatto almeno la tal misura o tempo, non sentirti soddisfatto.’ Quando si fanno gare con l’atteggiamento che 101 è ok e 99 non è ok, è difficile accontentarsi di aver fatto del proprio meglio se il risultato è sotto le attese. In quei casi è più facile contattare emozioni di rabbia, giudizio o dovere. Ma proprio queste sono le occasioni di crescita, quelle che fanno dire a se stessi ’fai del tuo meglio’, ‘fallo per te!. E’ una forma di empatia nei propri confronti. Alla fine dei giochi, la strada dell’integrazione psicologica è quella che, nel lungo periodo, ripaga maggiormente . Non è più la testa che tiene fuori, ma è la testa che si arricchisce di nuovi pensieri e che dice ‘fallo per te!’, ‘non temere di sbagliare’, ‘goditi il percorso, trova la cerniera, invisibile, della tua muta in goretex ed esplora nuove emozioni'. ' La prima gara non si scorda mai' ( ..non sto andando al patibolo; non morirò oggi - Cit. Anna Castelli) Da anni pratico l'apnea e la insegno. Con grande impegno e passione, cercando di trasmettere la sicurezza e gli aspetti tecnici; ma mi piace sempre di più cogliere il lato interiore, intimo di questa disciplina che sempre si rivela ricca di spunti e riflessioni. Nel tempo mi sono evoluta negli approcci sempre più flessibili e aperti; mi sono allenata, ho praticato, insegnato e partecipato alle competizioni. Ma ora che mi sento "cresciuta", sposto la sedia dell'attenzione su altri piani e mi trovo ad esplorare in punta di piedi, il mondo dei miei allievi. Mi interrogo su quali siano le emozioni che vivono e in che modo partecipano a queste nuove esperienze in un mondo così limpido come quello dell'apnea, capace di trasformarci nel movimento e nel pensiero. Di solito si intervistano gli atleti forti, quelli che con le loro performance evolute , aprono porte di comprensione che per molti di noi, sono lontane e sconosciute. Quest'anno però, molti dei nostri allievi della didattica di primo grado, hanno accettato con entusiasmo di cimentarsi nella loro prima competizione, senza troppe indicazioni; vergini, integri, nutriti solo di pane e apnea! Pur sapendo in parte cosa avrebbero provato, mi sono chiesta quali fossero le motivazioni e le sensazioni di un esordiente. Come vivrà il "battesimo" dell'agonismo? La gara è un momento di trepidazione! E di valori. L'esordio è una tappa delicata, personale e intensa pur conservando la leggerezza che vincola questa prova a una sorta di gioco. Gioco in cui, ognuno di loro ha messo in campo risorse e istanze private (aspettative, attesa, giudizio, orgoglio, determinazione...). L'entusiasmo e la curiosità stanno ai piedi di questi neo-atleti che hanno colto nell'apnea la possibilità di comprendere i propri limiti, ma anche di esprimere un valore che per ognuno rappresenta qualcosa di unico e privato. La decisione di "provare" è alimentata dalla sfida (con se stessi e con il gruppo) ma anche dalla curiosità; l'opportunità di approfondire un mondo interiore che nelle prove competitive disvela maggiormente i conflitti. Da un lato l'urgenza e l'ansia nell'attesa, sequestrano e mettono a dura prova la volontà e i pensieri positivi. Dall'altro, si impone la necessità di gestire il tumulto e ritrovare in qualche modo quelle sensazioni piacevoli di calma e ascolto che sono necessarie per mettere a tacere la pancia, il batticuore, il fiato corto! Le parole, i consigli, le strategie cadono a terra! Siamo sordi nel nostro caos. Il bello è proprio che non abbiamo alcun precedente che ci possa rassicurare. La prima volta è sempre la prima volta! Sta proprio qui la forza dell'emozione che ci riguarda così intimamente. Su quel blocco di partenza i piedi son proprio i nostri; e il respiro è l'unico vero compagno che ci porterà a casa. Come spesso accade, anche nella vita "a secco", la fiducia, spesso si rivela la chiave delle esperienze positive. Sapersi fidare di quello che siamo e che abbiamo imparato ma anche affidarci completamente alla natura di questo sport. Anna scrive " Quello era l'esatto posto dove dovevo messere in quel momento...sfioro il fondo della piscina con la pancia e sorrido perché mi sento come una manta...ora sto qui, fino in fondo". Per Sabrina invece "..intorno a me non c'è nessuno...l'acqua è un corridoio morbido e accogliente, poi con i metri si fa più densa e pesante...deforma e dilata le percezioni". In una manciata di secondi la prova è conclusa e la soddisfazione sorride sul volto di chi ha aperto una porta, forse la prima. Per qualcuno di loro la gara è stata una celebrazione di quanto imparato, qualcosa che appartiene alla tribù, al guerriero che è in noi. Conserva ancora il sapore antico del rito di passaggio. Mi stupisce sempre l'apnea con le sue straordinarie traiettorie. Nelle gare di apnea in piscina (apnea statica, rana subacquea, apnea dinamica con pinne e/o monopinna) ci sono da gestire: stati fisiologici come ipercapnia (troppa anidride carbonica), affaticamento muscolare (troppo acido lattico), ipossia (poco ossigeno); e stati mentali generati dall’ansia mentale (troppi pensieri e sequestro emotivo) e dall’ansia somatica (sensazioni spiacevoli). Se i tecnici del settore dovessero attribuire delle percentuali di importanza per ciascuna componente direbbero: 20/30% allenamento fisico; 20/30% allenamento tecnico; e 40/60% allenamento mentale. Ed è esattamente il contrario di quasi ogni altra disciplina dinamica. Un’apnea realizzata in modo consapevole e responsabile, insieme alla voglia di darci dentro, predilige fin dall’inizio il piacere, la conoscenza di sé e delle proprie reazioni. Coincide con un lavoro molto attento sull’ansia pre-sportiva e agonistica, e sull’esplorazione dei confini agonistici. Facendo apnea, un atleta impara fin da subito a gestire le parti facili di ogni gara, a dialogare con se stesso di fronte alle prime e seconde difficoltà della prestazione e a fare il giro delle ‘sette chiese’ quando cerca di superare, metro per metro, i propri limiti. Soprattutto quelli mentali. Nel dosare le proprie energie l’atleta vive pienamente quello stato zen (stato della coscienza) che suona come ‘stai zitto e nuota’. ‘Lo so, non è facile, ma fai del tuo meglio per esplorare la fatica, la fame d’aria, la sofferenza, lo sconosciuto che hai davanti’. E’ un po’ come dire: ‘mente stai zitta’; ‘STOP al rimuginio dei pensieri e ai sequestri emotivi’; ‘divertiti senza accontentarti’. Ma divertiti. Possiamo ben comprendere come tutto ciò rappresenti un allenamento utilissimo non solo per l’apnea, ma per la vita di tutti i giorni. Nell’imbarazzo di certi momenti, in allenamento e in gara, e non solo in quei momenti, con le domande appropriate, si possono rendere ecologici gli sforzi di miglioramento e di crescita psicologica: ‘in che modo mi è utile l’ansia di questo momento?’; ‘qual è l’aspetto piacevole di questa situazione o di questo disagio?’; ‘cosa posso imparare da quest’insuccesso?’; ‘come posso equilibrare aspettative e malessere, quando le reciproche forze sono contrapposte e alla massima potenza?’ In poche parole, la bellezza della preparazione mentale in apnea attira le sirene: richiama in ogni tuffo obiettivi e sacrifici, ma soprattutto piacere e conoscenza. L’apnea, per la crescita personale, dal mio punto di vista è ‘wow’. QUAL È LA RELAZIONE ESISTENTE TRA SCIENZE SOCIALI, NUTRIZIONE E SALUTE? Il cibo rappresenta lo specchio dell’evoluzione dei valori, dei ruoli e dei modelli di una società. Come tale si intreccia con i sistemi complessi della comunicazione, delle immagini, degli usi, delle situazioni e dei comportamenti di ciascun individuo. QUAL’E’ IL RUOLO DELLO PSICOTERAPEUTA NEL CONTESTO BENESSERE ALIMENTARE? Il compito che mi propongo è quello da ricercare le modalità con cui il cibo diventa strumento di comunicazione e di crescita personale. Il cibo, nel suo rappresentare le stagioni personali, i colori e il benessere psicofisico rappresenta il veicolo delle potenzialità in piena trasformazione di ogni individuo. ESISTE UNA RELAZIONE TRA ABITUDINI ALIMENTARI E LA PRATICA SPORTIVA? L’alimentazione ha un ruolo determinante nella pratica sportiva sia nella fase dell’allenamento che di gara. Una dieta ben scelta, frutto di corrette abitudini alimentari, consente il raggiungimento e mantenimento di un peso corporeo ideale, massimizza i vantaggi del programma d’allenamento, migliora il recupero tra allenamento e gara, riduce il rischio di infortuni e malattie. Al contario, una scarsa conoscenza del cibo e della sua preparazione in ambito sportivo induce a non fare buone scelte alimentari e a fare uso indiscriminato di integratori e alimenti per lo sport. QUAL’E’ LA DEFINIZIONE DI DISTURBO ALIMENTARE, SECONDO LEI? E’ una patologia che ruota intorno al cibo e alla paura di ingrassare e incide sulle abitudini alimentari, estremizzandole. Riguarda le preoccupazioni relative al peso e alle forme corporee i cui sintomi sono il digiuno, la restrizione alimentare, le crisi bulimiche, il vomito autoindotto, l’uso di lassativi, l’intensa attività fisica finalizzata alla perdita di peso. DISCIPLINA APNEISTICA E ALIMENTAZIONE: QUALI SONO GLI ELEMENTI DA CONSIDERARE DAL SUO PUNTO DI VISTA NEL RISPETTO DELLA PROPRIA SALUTE PSICOFISICA? Non ho un’esperienza specifica nel correlare la dieta con la disciplina apneistica. Quello che ho osservato è che, anche atleti di alto livello, hanno esigenze simili a quelle di un individuo sano, tranne che per il fabbisogno energetico. Quello che ho appurato è che non esistono alimenti particolari per migliorare la preparazione o la prestazione, ma solo buone o cattive abitudini alimentari. Sono in acqua, acqua calda, l’ambiente è tranquillo ma vibra di aspettative e adrenalina, voglia di mettersi alla prova. Prima di partire un respiro, profondo, ma non è ancora quello giusto. Nella testa ritornano le ultime parole di Stefano Tovaglieri che mi è accanto e oggi si presta a farmi da coach. “Vai fino a che te la senti, finché ne hai, non pensare a cose negative, divertiti.” E allora mi concentro di più e questa volta incamero tutta l’aria che posso, fino a che non ce ne stà più. Lascio lo snorkel, una pinneggiata in superficie, la capovolta appena oltre il cavo guida, una “passata” decisa di braccia per un distacco più efficace dalla superficie ed inizia la discesa. Una, due, tre pinneggiate potenti e la superficie è già lontana, posso rallentare. Sono a occhi chiusi, non ho bisogno di vedere, sento vicino a me il cavo guida e ciò mi basta. Mi concentro sulla compensazione, funziona bene, attento a rispettarla e nel frattempo continua a pinneggiare. -15, cambia la luce, sono entrato nel cilindro che scende in profondità; è tutto perfetto e il mio viaggio continua. -20 La pressione mi avvolge in un caldo abbraccio che mi avvolge e aumenta dolcemente la sensazione di benessere. E’ un momento magnifico, molto intimo nel quale mi sento in sintonia con me stesso e il mondo e come il Faust di Goethe vorrei fermarlo e urlargli “Attimo fermati, sei bello!” Mi distraggo, questa e altre riflessioni mi hanno portato lontano; -30 basta poco per sbagliare quel preciso e puntuale gesto tecnico che mi consentirebbe di continuare il viaggio. Sono arrivato, devo risalire. Apro gli occhi, vedo il cavo, lo afferro e con la mano che fa da perno giro ed inizio la risalita. Pinneggio deciso, quella pressione tanto confortevole prima si fa sentire ancora, ma questa volta in modo meno amichevole; devo sfuggirle e tornare al mondo al mio mondo terrestre. E’ la sensazione di un attimo, poi il mio corpo che in acqua diventa così leggero fa tutto da solo e risale senza chiedermi nemmeno un movimento; nuovamente una bella sensazione, fino ad uscire dall’acqua e inspirare avidamente il primo sorso d’aria. Il viaggio è finito, sono di nuovo in superficie, ancora un secondo e mi riconnetterò al mondo. Grazie Stefano. Ti ho ascoltato e l’averlo fatto mi ha permesso di riscoprire la gioia per la mia apnea. La pratico almeno una volta alla settimana, ma da anni il focus è quasi esclusivamente sugli allievi ai quali cerco di trasmettere l’amore per il mare e per questa disciplina, dando per scontato che lei abiti in me per sempre e che non abbia bisogno di essere ogni tanto riscoperta e coltivata. La riflessione finale è quella di meditare su quante cose belle sono sbocciate e abitano in noi che diamo similmente per scontate senza mai tornare a riscoprirle, a curarle e a godere della loro presenza. Il recupero della loro presenza silenziosa, del nostro bello intimo e personale non può che rafforzarci e darci forza, anche quando tutto sembra andare storto. La paura è un’emozione che ha i propri pulsanti di comando nell'inconscio di ciascuno di noi. Se riusciamo a rallentare i processi che la innescano possiamo riconoscerla come una fedele alleata dei nostri equilibri psicofisici. E se riusciamo ad osservarla e a gestirla senza pregiudizi, ci apriamo a scenari densi di significato. La paura, quindi, è un’amica fidata che ci segnala pericoli e ci protegge da situazioni rischiose. Fa sentire la sua presenza ogni volta che oltrepassiamo la soglia delle nostre abitudini, della nostra storia, del nostro Io. Se ci fermiamo un attimo, nella qualità del nostro respiro, possiamo percepire la sua ombra. Oltre la soglia, la paura può diventare spavento, terrore, panico, angoscia. Prima della soglia, però, dentro la nostra testa, quale frutto degli esami della vita, si raddoppia e diventa ‘paura della paura’. E' lì che la chiamiamo presentimento, preoccupazione, allarme, timore, ansia. Rimuginio. Se decidiamo di affrontarla, in qualsiasi forma essa si presenti, dobbiamo sentirla, farle spazio dentro di noi e capire meglio chi siamo, mentre la viviamo. L’apnea, da questo punto di vista, esplora la paura come limite in un contesto privilegiato. Si comincia dalla paura ancestrale, come non respirare. Si prosegue con la capacità di gestire i turbamenti del corpo, fino alla capacità di stare calmi in situazioni difficili. Si sperimenta, contestualmente, l’esplorazione dei propri limiti mentali e fisici. L'apnea subacquea, accoglie e trasforma la paura perché esplora le soglie del tempo con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritmi, i suoi movimenti. In poche altre discipline è possibile farlo con efficacia e rispetto dei limiti di ciascuno. La gestione della variabile ‘intervallo di tempo/apnea’, tra un respiro e l’altro, ci porta in contatto con i nostri limiti e ogni volta che accade mettiamo un mattoncino alla nostra identità: riconosciamo differenti reazioni, incontriamo confini personali, conosciamo l’altro (corpo, persona, acqua, mondo) in un modo speciale. Oltre la soglia, c'è un regalo. C’è un piacere conquistato e meritato con l’impegno e la disciplina. Ci sono mete che, una volta raggiunte, rafforzano la volontà di essere e di vivere, come una risorsa fondamentale della vita. In questa esperienza di Training Mentale e Apnea Profonda cercheremo di andare oltre il limite per sperimentare la meta, il piacere, la volontà! Sarà il nostro obiettivo! Nel week end del 25 e 26 Febbraio 2017 a Y40 - Montegrotto Terme (PD) - si terrà uno STAGE INEDITO dal titolo Training Mentale e Apnea Profonda. 'Ci interrogheremo sulla ricerca del 'limite' ed esploreremo le nostre potenzialità'. Programma e info partecipazione (Clicca) Ogni atleta ha una consapevolezza strettamente personale e peculiare della sua prestazione. Se ha la possibilità di elaborare la sua esperienza fenomenica, può sviluppare le strategie cognitive per migliorare le performance. Per farlo, deve poter percepire e far sua la rappresentazione ritmica del movimento. Deve poter vivere fedelmente la rappresentazione mentale del movimento e tradurla nel risultato atteso. In questo modo, si crea uno spazio adatto all’azione vera e propria. In quello spazio, il corpo è come una tastiera che suona. Dal suo suono nasce una prestazione intonata o meno. L’atleta sente tutto questo. Il ritmo può esprimersi in consapevolezza sonora se viene percepita la musicalità e la poesia dei movimenti. Se l’atleta si allena mentalmente o riprodurre quel ritmo, può indubbiamente migliorare l’esecuzione di azioni virtuose. Bisogna che riesca ad esprimerle nel suo miglior modo. Per questo è utile ripetere mentalmente alcune tracce acustiche (es, ta ta ta …) da integrare alle rappresentazioni mentali delle azioni motorie che si vogliono migliorare. Quindi risulta fondamentale la combinazione di ritmo, suono e rappresentazione mentale dei gesti atletici e loro ripetizione, con lo scopo di allenare mentalmente i compiti motorii più complessi. Come vanno allenati? Aumentando la frequenza, la velocità e il volume dei suoni che si emettono durante le esercitazioni. Quindi, massima attenzione ad esprimere in suoni, ritmi e voce, le azioni corporee, perché sono il punto di partenza per lo sviluppo di buone strategie mentali sia in allenamento che nelle prestazioni massimali. Insomma, occorre recuperare i suoni naturali del corpo, da ripetere come un mantra in relazione al movimento, alla gestualità e alla rappresentazione mentale della propria motricità. Se si riesce a tradurre il ritmo in suono e rappresentazione mentale, si riescono a liberare risorse attentive da integrare nel processo di realizzazione psico-motoria della prestazione. Facile? Non facile! Non siamo musicisti, ma il movimento è suono e ritmo. E’ come una gestalt della prestazione personale. Va colta, e addirittura promossa, insieme alle stimolazioni visive, acustiche, tattili, cinestesiche che fanno da specchio e retroazione a ciò che chiamiamo metacognizione del corpo. Ovverosia, ci dobbiamo allenare ad avere una traccia, una guida, uno stimolo per ragionare sui sensi e sul ritmo del movimento, per migliorare, come desideriamo, le azioni più complesse e fini. Le strategie che si concentrano sulla condizione fisica generale di un atleta, si innescano a partire da una corretta attivazione dei sensi e dei centri nervosi coinvolti nell’attività motoria. Il rendimento agonistico, pertanto, è ciò che si origina dalla catena virtuosa di sensazione, percezione e movimento. Il movimento, in particolare, è il promotore di specifici spazi di azione, percezione e sensazione, e determina i modelli di comportamento e rendimento agonistico che osserviamo in allenamento e in gara. Ci sono tre attività che regolano il controllo e la comunicazione che il cervello esercita su ogni comportamento. Ne abbiamo una consapevolezza minima e riuscire a coglierne gli effetti ha un valore enorme per l’efficienza degli equilibri psicofisiologici della prestazione. Il primo riguarda la capacità di monitorare i flussi sensoriali che arrivano da più fonti (ambiente e corpo). La seconda è l’abilità di integrare la qualità delle informazioni che consentono di poter decidere come agire di momento in momento. La terza è la partecipazione completa alla risposta motoria in atto, con la relativa sensibilità e attivazione di muscoli e ghiandole. Questi processi, perlopiù automatici, quando diventano oggetto della consapevolezza dell’atleta, possono migliorare e perfezionare gli scopi e le intenzioni dei movimenti volontari; possono produrre una maggiore fluidità sui movimenti riflessi (ciò è dovuto ad un minor controllo dei movimenti involontari); e infine, possono favorire quel ritmo e quella coordinazione virtuosa, essenziale per realizzare uno spazio nel quale agire e consentire uno stato di flow. La consapevolezza di immagini, dialogo interno, sensazioni corporee e movimento, costituisce quella disponibilità continua di informazioni che agiscono virtuosamente sull’esecuzione dei movimenti concreti. Non serve il controllo maniacale di questi flussi di informazioni, sembra essere sufficiente la presenza cosciente del soggetto. Ciò che risulta utile è la consapevolezza sui flussi di immagini, in quanto può servire a mitigare o amplificare gli effetti stimolati da cause esterne, come ad esempio fattori ambientali avversi o la presenza degli altri. In definitiva, un atleta che migliori la percezione dei propri movimenti, che utilizzi intere rappresentazioni visive, brani di attività, o che scandisca, in suoni e tempi, certe pratiche, ha presumibilmente una marcia in più nello stabilizzare, in chiave psicologica, il rendimento agonistico e le proprie performance. Quindi, avanti con fiducia nel rafforzare l’uso di strategie psicologiche consapevoli, con l’obiettivo di consolidare e migliorare il rendimento agonistico. La richiesta che un atleta rivolge al preparatore mentale è legata una domanda pratica: ‘quali sono, sul piano operativo, le strategie mentali che possono migliorare le mie prestazioni?’ In genere questa domanda parte dal presupposto che un trainer possa offrire suggerimenti autorevoli, adatti e fruibili allo scopo dell’atleta in questione. E’ una esigenza legittima. In realtà, la scienza dello sport dice che bisogna distinguere gli interventi ingenui e basati sull’intuizione del tecnico di turno, dagli interventi dimostrati empiricamente, e quindi utili, sul campo. Ad ogni modo, affinché il professionista possa essere di vero aiuto, deve calarsi nella complessità dell’esperienza dell’atleta e devono verificarsi alcuni pre-requisiti. Innanzitutto deve partire da quello che c’è. Dalle risorse che l’atleta ha a disposizione, ad esempio. Devono essere individuate e valorizzate. E non è un compito banale. Così come non è scontata la coscienza dell’atleta nel considerare le molte dinamiche in gioco: le condizioni ambientali, la forza o la debolezza degli avversari, la paura di perdere, il timore degli altri, non riuscire a vivere bene una sconfitta, la gestione dello stress. Per citarne alcune. E allora c’è da chiedersi: ‘che cosa si racconta, che dialoghi innesca, che immagini riproduce e cosa sente, chi cerca di essere se stesso alla massima potenza?’. E perché vuole migliorarsi? Quando le cose vanno bene, risultati, coinvolgimento, piacere, queste domande sono superflue. Sono i risultati che contano e l’atleta è definito di ’alto livello’. Ma, se i risultati non arrivano, e la sensazione è quella di essere un atleta di ’basso livello’, che non solo non ha buoni risultati, ma fatica a gestire anche le situazioni 'facili', è lì che subentra la figura del mental coach. Questi ha diversi compiti da espletare: - dà feedback puntuali e riflessioni sulle dinamiche in gioco, - anticipa e scala gli eventi, - offre stimoli motivazionali e agganci psicologici, - stimola le decisioni e l’autocontrollo, - fornisce trainings finalizzati a ottimizzare le conoscenze e le risorse a disposizione. Da parte sua, l’atleta ha la necessità di aprire il libro della conoscenza sulla complessità delle strategie a disposizione e migliorare alcune attitudini. Ad esempio, valutando ecologicamente i risultati che ottiene nelle sue prove, sia attraverso verifiche sul campo, sia confrontandosi con gli allenatori. Sia partecipando a percorsi di analisi video che a sessioni di colloquio e riflessioni. Ciò lo rende versatile e più maturo nell’utilizzare specifici protocolli di azione psicologica da integrare non solo al proprio allenamento quotidiano, ma in tutti gli ambiti della vita. L’atleta che fin da piccolo si è sciroppato lo ‘zen e il tiro con l’arco’ e che da adulto combatte con aspettative, timori e raccomandazioni tra le quali ‘stai li con la testa’ o ‘cambia atteggiamento’, è indotto a occuparsi coscientemente della relazione mente/corpo. La ricerca della perfezione dei gesti sportivi porta con sè un obiettivo collaterale ambizioso: avere una mente felice. Si riesce a raggiungere questo stato, quando si fa ponte tra mente, movimento e sensi. Da una parte adoperandosi per pervenire alla massima potenza dei movimenti riflessi e del controllo motorio, dall’altra integrando la percezione dei sensi con gli aspetti psicologici e neurofisiologici che lo determinano. Per questo, fin da giovane, un atleta dovrà acquisire molte abilità e competenze. Dovrà imparare a compiere, con più velocità ed efficacia, azioni produttive. Dovrà controllare o inibire i movimenti improduttivi. Dovrà apprenderà dagli errori, imparare ad esercitarsi al meglio e acquisire nuovi e più creativi modi di agire. Tutto questo lo dovrà compiere non solo per il ranking, i record o i risultati, ma per sè stesso e la propria forza mentale: concentrazione, autocontrollo, metodo, precisione. La ricerca scientifica si è interessata di tutto questo. Dall'integrazione di movimento, sensi e mente, ne è derivato un passaggio psicologico basilare: da semplice funzione comportamentale, ergonomica ed esecutiva, il movimento è diventato un processo psicocorporeo unitario che partendo dalla percezione arriva all’azione finale vera e propria. Per l'atleta che cerca l’eccellenza, il recupero dell’informazione psichica è stato il quid necessario per mettere nella corretta prospettiva i suoi meccanismi cognitivi, se stesso e la propria consapevolezza. L'effetto positivo di questo, cioè la rivalutazione dell’intervento psichico nel processo dell’azione sportiva, ha generato interi progetti di intervento. Gli sviluppi chiave hanno riguardato: - la ricerca scientifica, - la centralità dell’uomo, - la responsabilità dell’atleta, - l’attenzione alle strategie utilizzate in modo efficace e maturo, - i trainings specifici in funzione della disciplina svolta. Partendo dall’analisi puntuale delle caratteristiche personali e dalle condizioni soggettive connesse a una determinata performance in uno specifico arco temporale, e dalle migliori conoscenze dei vari elementi che caratterizzano l’attività motoria, si è fatto strada un nuovo modello di atleta. In altre parole, un atleta cosciente dei propri processi interiori che non può rinunciare a fare il pieno di esperienza, abilità, processi cognitivi e vissuto umano. In ogni attività agonistica, la mentalizzazione, cioè l’attività mentale e immaginativa, rappresenta una risorsa primaria. Attraverso la mentalizzazione, tutti i processi funzionali della psiche insieme all’esperienza del corpo in azione, diventano oggetto di attenzione e interiorizzazione. Dai contesti ambientali agli indizi sensoriali, dal comportamento pianificato alla realizzazione di un compito, dalla consapevolezza dei meccanismi senso motori al flusso delle correnti emotive, tutto diventa oggetto della consapevolezza dell’atleta. Infatti, un atleta attento parlerà di informazioni mirate, di distinguere ciò che è utile tenere e lasciare, di allenare il focus dell’attenzione e di resettare le informazioni non utili. Nei suoi movimenti si concentrerà sull’azione motoria ‘fine’, sui continui feedback sensoriali e sulla variabilità della propria gestualità. Per allenare tutto questo, lo sportivo dovrà far proprie alcune strategie di training mentale con l'intenzione di riconoscere e riprodurre gli stimoli rilevanti attraverso la visualizzazione, la memorizzazione e il dialogo interno. In particolare dovrà: - assimilare e sviluppare delle abilità specifiche inerenti al proprio ruolo professionale, - chiarire le proprie esigenze attraverso analisi dettagliate della propria disciplina, - migliorare il training attenzionale, - dotarsi di appropriate strategie di allenamento mentale. Sul piano della resa attenzionale, dovrà riconoscere ciò che è ‘rumore’ (immagini, suoni, sensazioni, movimenti, stati emozionali), e ciò che determina le sue incertezze decisionali. Questo vale sia per le decisioni percettive, sia per gli errori di giudizio e le relative omissioni e falsi allarmi. Se chiediamo ad un atleta come mai ha fatto quel tiro o quel passaggio sbagliato ci potrà parlare delle variabili visive che hanno condizionato le sue decisioni: la velocità degli oggetti, il contrasto dei colori, la luminosità, la dimensione retinica degli oggetti. Sono tutti aspetti che vanno riconosciuti e allenati. Tutto ciò riguarda la consapevolezza delle informazioni che provengono dal corpo, dallo spazio nel quale si muove e dal tempo di esecuzione dei movimenti che attua (con i suoi attributi di segnale, rumore e codifica). Esercizi per migliorare l'attenzione nello spazio Alcuni esercizi di attenzione finalizzati alla gestione di una prestazione riguardano la capacità di focalizzarsi sulle regioni spaziali del corpo. Ad esempio orientando il corpo verso lo stimolo, ma senza spostare lo sguardo. Altre esercitazioni hanno lo scopo di classificare le caratteristiche rilevanti del gioco e servono a distinguere gli stimoli distorcenti. Nel calcio, l’uso di sagome e di molteplici stimoli distrattivi possono aiutare la preparazione dei vari protagonisti. Occorre, in definitiva, allenare ‘l’occhio della mente’ a individuare ciò che migliora le prestazioni: scopi chiari, motivazione convinta e pianificazione dei compiti. L’intento è quello di ridurre eventuali elementi di disturbo (interrompendo le sequenze di azioni e reazioni improduttive) e sviluppare mappe interiori che rilevano e memorizzano la qualità degli stimoli ed i relativi comportamenti di risposta. Esercizi per migliorare l'attenzione al tempo e nel tempo Un altro importante allenamento riguarda l’abilità di porre attenzione al tempo e alla pressione temporale sul gesto sportivo e alla perizia necessaria al controllo senso motorio. Per allenare queste componenti è necessario differenziare gli stimoli temporali, come quando un portiere deve parare un rigore e viene disturbato dal contemporaneo movimento di più giocatori. Deve distinguere in modo certo dove dirigere la propria attenzione. Per concludere, la costanza, la familiarità e l’allenamento migliorano certamente le prestazioni sportive, ma è attraverso l’allenamento mentale che un atleta non solo migliora nella propria disciplina: trasforma se stesso. Quando pensiamo all’atleta che ha ‘testa’ o è in ‘palla’, o al contrario che è ‘assente’, ‘flashato’ o in ‘tilt’, facciamo riferimento in modo ‘naif’ al funzionamento del suo cervello e alla possibilità che qualcosa di magico, di fortunoso o di macchinoso, abbia o non abbia funzionato. I ricercatori che indagano sulle attività neurali connesse alla prestazione, chiamano tutto questo: ‘efficienza neurale’; economia delle risorse cerebrali, ‘rumore’ neuromotorio, ritmo alfagenico, attivazione sensoriale locale, stati cognitivi, simmetria e sincronizzazione emisferica, sistema mirror (neuroni a specchio), tempi di reazione ad un compito, controllo attenzionale, flessibilità comportamentale, plasticità cerebrale, cambiamenti morfologici. Avere ‘testa’ in una data prestazione, dal punto di vista della ricerca, significa avere un’efficienza neurale specifica per ogni segmento motorio particolarmente allenato, e una forma di radicamento nell’equilibrio posturale. Un atleta in 'palla', pertanto, svolge il proprio compito in maniera efficiente ed ‘in economia’ quando la sua attenzione è focalizzata, sincronizzazione alfagenica, e il corpo è in grado di anticipare le risposte, grazie al sistema mirror; la sua attivazione e risposta fisica è più precisa ed efficiente; e integra le informazioni visive con quelle esecutive. Roba forte. Va da sé che un atleta ‘assente’, ‘flashato’ o in 'tilt', si trova a dover fare i conti con un ’rumore’ di fondo neuromotorio, con informazioni emozionali e somatosensoriali inopportune, e una ’lentezza’ neurale che ne compromettono la performance e il rendimento. Nello specifico dell’ansia pre-gara, si attivano aree del cervello (cingolo, amigdala e gangli della base), che implicano un coinvolgimento emozionale e conseguentemente un disturbo della concentrazione sul gesto sportivo. Quindi è importantissimo per un atleta gestire i propri stati emozionali pre e durante la gara (ad es. respirando, rilassandosi o contando da 1 a 5 fino a calmarsi), e anticipare, con un lavoro ideomotorio, l’esecuzione di eventi gara che rafforzano i circuiti neurali e cognitivi. Avere, durante le sue performance, una organizzazione psicomotoria più efficiente in grado di eliminare le informazioni irrilevanti o di disturbo (ad es. gestendo il rimuginio mentale). Dall’efficienza neuromotoria, e dalla coordinazione di aree nervose arcaiche e moderne, deriva uno stato ideale di effcenza o stato di flow: gli obiettivi sono chiari; il coinvolgimento è completo; si perde la cognizione del tempo; si ha la ’sensazione’ che l’attività andrà bene; si è sicuri e lucidi, ogni gesto viene portato a termine in maniera naturale. Le neuroscienze stanno indagando tutto questo. Un gruppo coeso può produrre diversi effetti positivi: il successo sportivo misurabile in prestazione e risultati, la stabilità e il ‘benessere’ generale della squadra, la resistenza agli eventi negativi. La coesione di gruppo è qualcosa che si vede, si percepisce, si respira, ma è difficile pretenderla solo perché ci si allena insieme o si è dei professionisti. Viene studiata attraverso modelli scientifici e riguarda i rapporti tra i membri della squadra (psicologia dell’organizzazione), le condizioni ambientali (psicologia sociale) e le qualità individuali che ogni singolo atleta mette in campo per favorirla, insieme alle esperienze e ai significati personali che vive con compagni ed allenatori (psicologia della personalità). Come primo dato che la può favorire, segnalo la dimensione del gruppo. Più il gruppo è piccolo meglio è (ad es. nella pallavolo giocano 6 atleti, nel calcio 11). A seguire la complessità del gioco di squadra (ad es. il rugby contrapposto a una 4x100 di nuoto o di corsa). Il livello agonistico dello sport di squadra (ad es. squadre giovanili a confronto con squadre di alto livello professionistico). La coesione tra gli atleti (ad es. nella condivisione degli obiettivi di lavoro e/o la qualità dei rapporti interpersonali). La capacità dell’allenatore di intervenire sulle dinamiche comunicative che si instaurano tra gli atleti e le riflessioni che arricchiscono gli aspetti specifici della prestazione sportiva (ad es. attraverso l’utilizzo delle videoregistrazioni). Ma come fare per sviluppare la coesione di un gruppo che talvolta è proiettata sull'avversario, talaltra si addormenta sulle regole e solo di tanto in tanto è orientata alla crescita del gruppo? E’ necessario, da una parte, intervenire sulla consapevolezza degli obiettivi da raggiungere, sull'impegno da elargire e sulla qualità delle relazioni interpersonali (compito del coach e dei leader del gruppo). Dall'altra, è utile rendere esplicita la cultura, le regole e i codici della squadra (compito della dirigenza). E ancora, è fondamentale, migliorare le caratteristiche individuali di aspirazione professionale, motivazione e buone relazioni (compito dell’atleta). La coesione del gruppo è un impegno di tutti i protagonisti che non ha solo ricadute sui risultati, lo ha anche nel mitigare le esperienze emotive pre-gara, nel garantire il benessere e la soddisfazione degli atleti e nel promuovere la loro motivazione all'impegno, allo sforzo agonistico e alla disponibilità al sacrificio. In altre parole, se le formiche si mettono d’accordo - come recita un proverbio del Burkina Faso - possono spostare un elefante. Quando penso alla leadership in ambito sportivo penso al lavoro di una squadra (Team Work) che agisce e mette in pratica regole e comportamenti ‘virtuosi’ al fine di raggiungere gli obiettivi che il gruppo persegue. Ma penso anche alla qualità dei rapporti tra coach e atleti e ancora alla natura dei rapporti all’interno della squadra e agli equilibri tra le esigenze di ciascun membro. La leadership è quindi un processo virtuoso e complesso che può, o meno, facilitare e regolare il sistema, il coach, l’atleta, le interazioni di gruppo, la dirigenza. Nello specifico, riguarda lo sviluppo di alcuni corsi: - la capacità di incidere sui flussi comunicativi e le interazioni tra i membri della squadra; - la definizione di regole e codici di condotta; - l’assegnazione di ruoli o responsabilità; - la scelta di strategie condivise; - e l'adattabilità ai cambiamenti. Insomma, se nel passato essere leader significava ‘stile di comportamento del coach e suo impatto sulla prestazione’, oggi significa qualcosa di molto più complesso. Riguarda la valutazione della leadership come un processo interpersonale dinamico nel quale l’efficacia di un allenatore è prodotta dall’allineamento continuo tra le sue esigenze, scelte e azioni, e le caratteristiche, bisogni e attese, degli atleti che lo seguono. Si è passati da ‘colui che guida’ e cioè alla comprensione della personalità e caratteristiche di successo del coach, alla sua autorevolezza e capacità di privilegiare obiettivi di lavoro, a ‘guida efficace di un gruppo’, ossia alla sua capacità di persuadere, di condividere decisioni, fornire feedback positivi, dare sostegno alle vicende personali degli atleti e tenere alto il grado di maturità, responsabilità e competenza del gruppo a completare il proprio lavoro. Il coach di oggi, quindi, ha necessità di tenere alta la guardia su molteplici fattori e adattare il proprio stile comportamentale in ragione delle esigenze che i membri del gruppo esprimono nell'affrontare le loro responsabilità e lavoro. Per evitare la minaccia di dividere e disgregare il gruppo, pertanto, dovrà: - essere equilibrato nella valutazione degli interessi individuali e collettivi, e in grado di rafforzare i legami interpersonali e di squadra. - Essere preparato nel misurarsi con criteri oggettivi di successo e critica, quali i punti fatti in campionato, la classifica e i confronti diretti con le squadre più quotate o di pari livello. - Tenere in considerazione le aspettative, le percezioni e le valutazioni che i membri del suo gruppo restituiscono al suo operato, alle sue aspettative e ai risultati raggiunti. - Comprendere le condizioni che generano equilibrio tra la sua leadership e quella degli atleti che se la sono guadagnata sul campo. - E, infine, essere efficace in tutti questi processi. In una battuta: ‘un leader attrae le persone verso un orizzonte e offre loro un bene prezioso, la fiducia. Quando commette degli errori, impara e li corregge’. La moneta sonante di ogni pratica sportiva è speciale e si chiama ‘valore’. Non è di carta e non è d’oro. E’ composta di atteggiamenti, pensieri, emozioni e sensazioni. Non è uguale per tutti e non tutti gli atleti la riescono a spendere, alias trasformare, nel modo giusto in conoscenza di sé, apertura al cambiamento, auto-miglioramento o auto-trascendenza. Mi riferisco a quel capitale umano che nasce dalla percezione e rappresentazione cognitiva di azioni che soddisfano bisogni fisiologici, psicologici e sociali, e che si traduce in ‘palestra di vita’. Ogni atleta ha una sua speciale stamperia per riprodurre la moneta che soddisfa al meglio le proprie esigenze e bisogni. La moneta non manca: è la passione, il potere personale, il successo, il piacere e la gratificazione dei sensi, la ricerca di nuovi stimoli, l’indipendenza di azione e di pensiero, l’autocontrollo, la sicurezza, il rispetto dell’altro, etc. Ognuno di questi valori è vivo ed è l’archetipo di un progetto potenziale. Bisogna solo sapere come percorrere, con cognizione, la scala della sopravvivenza o del risultato, e avviarci ai piani alti dell’educazione e della consapevolezza. A tutti i protagonisti dello sport occorre un paradigma, e cioè una buona teoria, di quali siano per loro i valori che contano e il loro senso, e dei metodi che consentano di trasformare gli stimoli naturali e la direttività, in comprensione, interazione e attuazione più accurata, i propri impegni. Sono le buone teorie che consentono di valorizzare le situazioni, modificare i comportamenti, trascendere i conflitti e i doppi legami, e aggiornare le strategie di azione più efficaci. Ora, per spendere il nostro ‘contante’ nello sport, dobbiamo investire in prospettiva, individuare e selezionare i valori più importanti, comprendere perché sono importanti, individuare cosa amiamo del nostro sport, percepire che cosa ci piacerebbe raggiungere e intuire come i nostri valori ci possono aiutare a raggiungere i nostri obiettivi. Via! Si chiudono gli occhi, o meglio si aprono, si prende l’ascensore della coscienza e in quello spazio speciale si progetta come spendere al meglio la propria moneta sonante. Per atleta patentato intendo un atleta che è cosciente dei propri mezzi (pronto di riflessi, rapido nella risposta agli stimoli, resistente, forte, rilassato, potente), li migliora con qualità psicologica ed etica (coraggio, abnegazione, padronanza di sé e perseveranza) e li evolve con modelli di valore eccellenti. E’ un po’ come prepararsi per l’esame della patente di guida. Si acquisiscono conoscenze e regole, si superano prove ed esami di realtà. Alla fine ti viene data la patente per come hai saputo far crescere capacità, competenze e ‘mentalità’, facendoli diventare la tua cultura di riferimento sportivo e umano. I test valoriali da affrontare con successo sono molteplici e concatenati. Inizio con la capacità di cooperare nella competizione. Indica due cose. Primo, tu sei parte di un sistema nel quale devi trovare il tuo posto e, secondo, quando competi, l’avversario non è che la palestra ideale per allenare il tuo modo di pensare in prospettiva. Non è ‘altro da te’, è la tua interfaccia, sei tu, allo specchio! Scopri la tua forza attraverso l’’altro’ e scopri che cosa sia la forza dello spirito di gruppo. Sperimenti cosa significa coesione, una alchimia di fattori che ti fa crescere quando il tuo gruppo cerca di convergere le proprie intenzioni in un fine comune. Per ogni atleta, ciò significa avere un’idea di sé, dell’altro e della funzionalità reciproca. Dal punto di vista della crescita personale, lo spirito di gruppo è la leva che, attraverso gesti significativi di amicizia, lealtà e umanità, riesce a recuperare e rendere costruttivi anche i momenti di difficoltà, tensione, conflitto. Il gruppo diventa così l’humus di una articolata crescita emotiva e psicologica, e rafforza la tua disciplina personale. Essa si fortifica attraverso comportamenti ed esami di realtà (allenamenti impegnativi, controllo della fatica e gestione della sofferenza) che potenziano il carattere e l’organizzazione della volontà, in vista dei tuoi scopi. Ma riguarda, soprattutto, qualcosa di più fine come l’ascolto di te, dei tuoi ritmi e limiti. Da tutto ciò deriva la necessità di scambi raffinati e regolati attraverso la condivisione e il rispetto di regole. Esse riguardano cose speciali come l’avere una seconda pelle che si estende oltre i confini personali. Queste incursioni dell’io pelle’ nel mondo dell’altro richiedono confini chiari, accettazione incondizionata e rispetto delle diversità: una conoscenza ‘non ingenua’ di chi sia compagno, allenatore, arbitro, avversario, pubblico. Questa conoscenza pragmatica e positiva, si armonizza con la tolleranza e il rispetto reciproco. Scopri come accettare la sconfitta e come onorare l’avversario, ma soprattutto impara a ‘giocare’ nella vita di tutti i giorni per valorizzare te stesso attraverso quello che fai. A queste cinque dimensioni valoriali: capacità di cooperare nella competizione, spirito di gruppo, disciplina personale, condivisione e rispetto di regole e, infine, tolleranza e rispetto reciproco, assegno un punteggio massimo complessivo di 50, da 1 a 10 per ciascuna area. Quanto vale la tua patente di atleta? Quando penso ai calciatori che si tuffano al minimo tocco, agli atleti che si dopano, a chi usa sotterfugi, come impiegare le batterie nelle gare di mountain bike, oltre a indignarmi, mi chiedo ’ma non si rendono conto che l’etica, la sportività, la sportpersonship verso l’avversario e le regole, rappresentano una garanzia di impegno pieno e leale? Non viene in mente che agire in quel modo condiziona la motivazione e il rendimento? Che nelle viscere della psiche si alleva una falsa immagine di sé?’ Evidentemente esistono motivi superiori come il successo, il denaro, il prestigio che di fatto sequestrano ogni sano aspetto interiore e catapultano al centro dell’obiettivo sportivo qualcosa che va oltre e distante dalla persona. Ma c’è un’equazione che le ricerche sembrano confermare: meno sportività = meno piacere; più sportività = più piacere. Negli sport di alto livello, la ricerca della prestazione rende la ricerca del piacere secondaria, se non marginale. Vincono altri aspetti come gli allenamenti al limite e protratti nel tempo, che di piacevole hanno ben poco. Tuttavia c’è un però. Se un atleta non trova piacevole quello che fa e non riesce ad interiorizzare gli stimoli motivazionali in modo costruttivo, può ritrovarsi a dover gestire alcuni effetti negativi: diminuisce la continuità e la persistenza degli allenamenti, mette sotto pressione il rapporto con l’allenatore, riduce l’attivazione delle proprie energie e ha la sensazione, più in generale, di avere un Sé scarico. Quando si è scarichi di energia soggettiva, non si riesce a soddisfare proprio quei bisogni psicologici che mantengono e incrementano la vitalità. Può capitare, infatti, di sentirsi esauriti anche in assenza di un particolare sforzo. Questo accade quando vengono a mancare quelle sequenze di flusso che corrispondono ad un completo coinvolgimento nel compito che si sta svolgendo. Riassumendo, per una prestazione ottimale e per non perdere stimoli verso la propria attività, concorrono i seguenti fattori: Il piacere di fare le cose, rinforza la continuità di tempo e impegno dedicato agli allenamenti; avere un allenatore che si stima e di cui ci si fida, stimola il rendimento; l’energia vitale viene incrementata dalla soddisfazione di personali bisogni psicologici; il risultato finale, la peak performance, è sollecitata da un completo coinvolgimento nel gesto agonistico e dalla esclusione di qualsiasi stimolo disturbante; e, infine, il pieno coinvolgimento rende più probabile lo stato di flow. |
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