
‘Gufare’ significa portare sfortuna a qualcuno o a qualcosa, sperando che perda o che non avvenga una determinata cosa!
E’ molto comune nello sport dove l’antagonista è una misura, un tempo o una gara, ma è soprattutto una persona o un gruppo il cui gioco abilita o meno gli sforzi nell'eccellere.
Il concetto che sostiene un tale ragionamento è: ‘Sono il migliore! Se sono il migliore, tu devi essere raggiungibile o devi perdere. Se vinci è per fortuna o per meriti, ma io, in ogni modo, devo esistere e tu devi scomparire’.
La lotta furibonda è tra la piena espressione della propria identità e la sensazione profonda e diffusa di perdita e di incompletezza.
Chi perde l’occasione di agire il proprio spazio identitario, regredisce nella comunicazione e perde il linguaggio espressivo dei propri processi simbolici: rompe con l’altro e ricerca, attraverso l’aggressività verbale e simbolica, la rielaborazione dei propri fantasmi. I fantasmi sono di castrazione, di divorazione, di penetrazione, ecc., che prevalgono nell’infanzia e si riacutizzano ogni volta che si accende l’ambivalenza conflittuale tra il desiderio di fusione e l’espressione compiuta della propria identità.
L’atleta ha bisogno di fondersi e di separarsi. E’ sollevato se l’altro merita le proprie realizzazioni. E’ frustrato se è incapace di agire il proprio ruolo in modo creativo. Diventa prigioniero, drammaticamente, se si rinchiude nella fissità emozionale dei propri fantasmi interiori di piacere e di dispiacere.
L’atleta, in prima istanza, incontra il bisogno simbolico di ‘evacuare’ i propri fantasmi e nel farlo ‘deve’ distruggere l’altro, pena la propria sopravvivenza. In una fase successiva, si distacca dalle ‘proiezioni nemiche’ e ritrova l’armonia nei propri vissuti fantasmatici.
Attraverso ‘momenti magici’ di piacere, di liberazione dell’affettività e dell’intelligenza, ritrova l’isola felice del pensiero, uno spazio meditativo dove obbedisce ad altre regole e altri codici.
E’ molto comune nello sport dove l’antagonista è una misura, un tempo o una gara, ma è soprattutto una persona o un gruppo il cui gioco abilita o meno gli sforzi nell'eccellere.
Il concetto che sostiene un tale ragionamento è: ‘Sono il migliore! Se sono il migliore, tu devi essere raggiungibile o devi perdere. Se vinci è per fortuna o per meriti, ma io, in ogni modo, devo esistere e tu devi scomparire’.
La lotta furibonda è tra la piena espressione della propria identità e la sensazione profonda e diffusa di perdita e di incompletezza.
Chi perde l’occasione di agire il proprio spazio identitario, regredisce nella comunicazione e perde il linguaggio espressivo dei propri processi simbolici: rompe con l’altro e ricerca, attraverso l’aggressività verbale e simbolica, la rielaborazione dei propri fantasmi. I fantasmi sono di castrazione, di divorazione, di penetrazione, ecc., che prevalgono nell’infanzia e si riacutizzano ogni volta che si accende l’ambivalenza conflittuale tra il desiderio di fusione e l’espressione compiuta della propria identità.
L’atleta ha bisogno di fondersi e di separarsi. E’ sollevato se l’altro merita le proprie realizzazioni. E’ frustrato se è incapace di agire il proprio ruolo in modo creativo. Diventa prigioniero, drammaticamente, se si rinchiude nella fissità emozionale dei propri fantasmi interiori di piacere e di dispiacere.
L’atleta, in prima istanza, incontra il bisogno simbolico di ‘evacuare’ i propri fantasmi e nel farlo ‘deve’ distruggere l’altro, pena la propria sopravvivenza. In una fase successiva, si distacca dalle ‘proiezioni nemiche’ e ritrova l’armonia nei propri vissuti fantasmatici.
Attraverso ‘momenti magici’ di piacere, di liberazione dell’affettività e dell’intelligenza, ritrova l’isola felice del pensiero, uno spazio meditativo dove obbedisce ad altre regole e altri codici.