
Vorrei scrivere bene!
Vorrei scrivere di buone sensazioni ed emozioni esaltanti.
Qualcosa che elevi lo spirito e che violi il varco umano della coscienza.
Se il mondo sapesse le profondità che può raggiungere un uomo mentre si tuffa in apnea, quale pendio scosceso della sua vita ha da percorrere ed esplorare!
Il peso del cosmo sopra di lui, il ricordo primitivo, la materna acqua che lo inghiotte scaraventandolo in un pianeta occulto dove è astronauta del silenzio.
L'uomo che frequenta il mare a questo modo, parla una lingua ignota per la maggior parte della gente.
Evoca rappresentazioni simboliche di rinascita e appartenenza, ragiona in termini di rilassamento, di intuizione e di scoperta di se stesso in una scala di intima conoscenza, di nudità sottile.
Ma nel mondo paradisiaco dell'apnea profonda l'uomo censura una parte di se.
In questo varco che oltrepassa, il suo lavoro più faticoso è quello di scandagliare l'angolo più intimo e oscuro.
Si entra in contatto con un movimento quasi rallentato.
Tutto assume forme e colori diversi, alterati; il tempo si ferma e noi con lui.
Restiamo sospesi.
Appesi alle nostre micro-capacità in questo mare sovrastante che comprime e ghermisce.
Da un lato siamo scopritori di un eden estetico. Dall'altro riconquistiamo lembi sacrificati del nostro intimo piacere.
Nel bene e nel male siamo catapultati in un universo parallelo.
Dentro le nostre mute che ci difendono dal freddo, il mare entra e trova spazio. Siamo scafandrati, ma da molto altro ci difendiamo.
Lontani da quel mondo terrestre dal quale troppo spesso ci sentiamo annichiliti, annientati; ci dibattiamo come pesci nella rete, prigionieri a volte di noi stessi e dell'abitudine all'anestesia del tempo.
Incalzati dal ritmo, frenati dall'inibizione!
Sott'acqua si scardinano le porte del sentire.
Dallo stomaco, feroce, il mostro famelico che tiene silenziosamente la frusta, si dimena e vuole uscire.
Consapevole sopra di me, a non troppi metri, il mio compagno resta in attesa e ascolta il moschetto del cavo di sicurezza che mi accompagna lungo la cima. Segue la mia irrequietezza, la mia determinazione, la mia via: la mia ricerca di un po' di pace.
Metto a tacere la mente che sempre chiede e intanto inghiotte la debole prospettiva.
Combatte, decisa a non lasciarmi cadere, libera da forze ben più resistenti che mi concupiscono.
Lo stare in apnea è uno stato di solitudine desertica.
Cerco di fissarmi nell'anima il contatto con il blu surreale, che satura i miei occhi e mi riempie completamente; mi assaggia e ogni volta si tiene un po' di me.
Il mare dà, il mare prende!
A un certo punto mi devo fermare.
Si arresta la caduta nelle fresche viscere.
Il mio corpo è li, in ginocchio davanti alla vita.
Frenata dal peso che mi ricaccia al di la di me stessa, devo lottare per guadagnare la luce. Ahimè, io son di quel mondo.
Per pochi istanti l'indecisione mi assaggia: andare o restare a godermi ancora un po' questo mondo irrinunciabile.
L'apnea per me non è uno sport, è uno stato di coscienza.
In fondo cos'altro è?
Ogni volta che valichiamo un limite peculiare, andiamo un po' a morire. Andiamo incontro a un isolamento estremo, addirittura fuori dal mondo proprio dell'umana esistenza.
Sondiamo quanto resistenti siamo al sottile desiderio di scegliere la vita, ogni volta che giriamo la testa per far ritorno dal nostro piccolo abisso.
Meglio questo mondo o quell'altro?
Dove gli incubi sono distinti e palpabili.
Li assaggiamo a mani aperte; qualche volta non è neanche un pensiero. Solo ci sfiorano.
Come fossi un vaso a tenuta stagna, qualche goccia di umidità effimera mi insinua.
Quando faccio ritorno a casa, poi, con calma la ritrovo li, fra le costole, a farmi compagnia.
Titolo: "Gabbiani"
Danzano grevi
sospesi fra cielo e mare
creature tenaci,
bianchi come le rocce esuli
dei miei tormenti.
Si dibattono
lanciando l'ebbro grido di battaglia
contro l'intruso che son io,
appesa io stessa alla scogliera
che affonda affranta
el cobalto stupore del mare.
Vorrei scrivere di buone sensazioni ed emozioni esaltanti.
Qualcosa che elevi lo spirito e che violi il varco umano della coscienza.
Se il mondo sapesse le profondità che può raggiungere un uomo mentre si tuffa in apnea, quale pendio scosceso della sua vita ha da percorrere ed esplorare!
Il peso del cosmo sopra di lui, il ricordo primitivo, la materna acqua che lo inghiotte scaraventandolo in un pianeta occulto dove è astronauta del silenzio.
L'uomo che frequenta il mare a questo modo, parla una lingua ignota per la maggior parte della gente.
Evoca rappresentazioni simboliche di rinascita e appartenenza, ragiona in termini di rilassamento, di intuizione e di scoperta di se stesso in una scala di intima conoscenza, di nudità sottile.
Ma nel mondo paradisiaco dell'apnea profonda l'uomo censura una parte di se.
In questo varco che oltrepassa, il suo lavoro più faticoso è quello di scandagliare l'angolo più intimo e oscuro.
Si entra in contatto con un movimento quasi rallentato.
Tutto assume forme e colori diversi, alterati; il tempo si ferma e noi con lui.
Restiamo sospesi.
Appesi alle nostre micro-capacità in questo mare sovrastante che comprime e ghermisce.
Da un lato siamo scopritori di un eden estetico. Dall'altro riconquistiamo lembi sacrificati del nostro intimo piacere.
Nel bene e nel male siamo catapultati in un universo parallelo.
Dentro le nostre mute che ci difendono dal freddo, il mare entra e trova spazio. Siamo scafandrati, ma da molto altro ci difendiamo.
Lontani da quel mondo terrestre dal quale troppo spesso ci sentiamo annichiliti, annientati; ci dibattiamo come pesci nella rete, prigionieri a volte di noi stessi e dell'abitudine all'anestesia del tempo.
Incalzati dal ritmo, frenati dall'inibizione!
Sott'acqua si scardinano le porte del sentire.
Dallo stomaco, feroce, il mostro famelico che tiene silenziosamente la frusta, si dimena e vuole uscire.
Consapevole sopra di me, a non troppi metri, il mio compagno resta in attesa e ascolta il moschetto del cavo di sicurezza che mi accompagna lungo la cima. Segue la mia irrequietezza, la mia determinazione, la mia via: la mia ricerca di un po' di pace.
Metto a tacere la mente che sempre chiede e intanto inghiotte la debole prospettiva.
Combatte, decisa a non lasciarmi cadere, libera da forze ben più resistenti che mi concupiscono.
Lo stare in apnea è uno stato di solitudine desertica.
Cerco di fissarmi nell'anima il contatto con il blu surreale, che satura i miei occhi e mi riempie completamente; mi assaggia e ogni volta si tiene un po' di me.
Il mare dà, il mare prende!
A un certo punto mi devo fermare.
Si arresta la caduta nelle fresche viscere.
Il mio corpo è li, in ginocchio davanti alla vita.
Frenata dal peso che mi ricaccia al di la di me stessa, devo lottare per guadagnare la luce. Ahimè, io son di quel mondo.
Per pochi istanti l'indecisione mi assaggia: andare o restare a godermi ancora un po' questo mondo irrinunciabile.
L'apnea per me non è uno sport, è uno stato di coscienza.
In fondo cos'altro è?
Ogni volta che valichiamo un limite peculiare, andiamo un po' a morire. Andiamo incontro a un isolamento estremo, addirittura fuori dal mondo proprio dell'umana esistenza.
Sondiamo quanto resistenti siamo al sottile desiderio di scegliere la vita, ogni volta che giriamo la testa per far ritorno dal nostro piccolo abisso.
Meglio questo mondo o quell'altro?
Dove gli incubi sono distinti e palpabili.
Li assaggiamo a mani aperte; qualche volta non è neanche un pensiero. Solo ci sfiorano.
Come fossi un vaso a tenuta stagna, qualche goccia di umidità effimera mi insinua.
Quando faccio ritorno a casa, poi, con calma la ritrovo li, fra le costole, a farmi compagnia.
Titolo: "Gabbiani"
Danzano grevi
sospesi fra cielo e mare
creature tenaci,
bianchi come le rocce esuli
dei miei tormenti.
Si dibattono
lanciando l'ebbro grido di battaglia
contro l'intruso che son io,
appesa io stessa alla scogliera
che affonda affranta
el cobalto stupore del mare.