Ogni atleta, nel dare il meglio di sé, si pone rispetto al suo mondo di riferimento, con precise domande: ‘chi voglio essere?’, ‘che sguardo voglio avere?’, ’qual è l’immagine di sportivo che trasmetto?’. In relazione a queste domande, ogni atleta educa il proprio pensiero a incontrare e imparare dall’altro, e talvolta a superare le antinomie del diverso da sé. Soprattutto quando l’altro è rappresentante di un mondo di pensieri che paralizzano, che fanno arrabbiare e che generano rancore. Pensare, per ogni atleta, significa soppesare, ponderare, sottoporre al vaglio della misurazione. Significa convocare, incontrare i pensieri altrui insieme alla propria percezione delle azioni e dei fatti. Quindi, non ideologia - il proprio pensiero su tutti - ma dialettica e pensiero educato ad esporre la propria mente alle contraddizioni dell’esperienza altrui. Quindi ‘accoglienza’, anche per le idee avverse, anche per i pensieri negativi, per ospitare la totalità dell’esperienza. Un atleta deve avere una propria tesi, una propria idea, deve saperla difendere, Le sue argomentazioni devono avere un 'sapore', ma non deve avere inimicizia verso tesi contrarie. Esporsi alla fenomenologia dell’esistenza, alla pressione del mondo, senza aver nulla da difendere, significa accettare che le diversità lottino fra loro nel teatro di un pensiero appassionato, aperto, lungimirante. Perfino ottimista. Una disposizione aperta alla visione altrui, è A-ideologica, va ‘oltre’ i ruoli, la squadra, la società, l’istituzione, il punto di vista. E' una disposizione psicologica che incontra la pressione del mondo per ospitarla, in positivo e in negativo, e integrarla alla propria. Questa è il mio suggerimento per gestire il rancore: ‘imparare a pensare e integrare il diverso da sè’.
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