Ogni sportivo, ogni atleta cerca un apice nella propria esperienza psicologica e professionale che attraversa i piani della propria consapevolezza per raggiungere uno stato ideale di flow (flusso): una piena sintonia tra aspettative, atteggiamenti, comportamenti e risultati. Quali sono i piani ideali che aiutano l’atleta a realizzare il proprio sogno di risultati, realizzazione personale e stato di flow? Percepire le proprie risorse istintive divertendosi; sperimentare un ambiente sportivo familiare attraverso il quale esprimere le proprie emozioni in modo affettivo insieme ad amici e compagni; riconoscere i propri talenti attraverso un approccio psicologico di sviluppo delle potenzialità della mente e della volontà per ottenere ciò che vuole; sapere che si può ottenere molto da se stessi se si ha un progetto e ci si applica con volontà, determinazione e sacrificio, sapendo anche interrogarsi su cosa veramente conta per riuscire ad avere una soddisfazione profonda e autentica; avere la maturità di distinguere cosa è risultato, cosa è comportamento e cosa è essere persona; praticare con partecipazione, con passione vivificante, la propria disciplina di un amore che non si appanna; e infine, essere profondamente in contatto con la propria volontà, di mente e di cuore. Se questi piani conducono a una felice sintesi di risultati sportivi e soddisfazioni personali, dobbiamo chiederci ‘come interagisce l’atleta con la sua esperienza negli allenamenti e in gara?’. C'è molto "coaching" (tutoraggio) su come aiutare l’atleta a performare. In fondo, tutti ci prodighiamo per rendere l’atleta più felice di se stesso e delle proprie prestazioni. Ma nonostante tutti gli sforzi, vi sono una serie di "trappole cognitive" che rendono difficile elaborare idee corrette su come essere appagati dai propri allenamenti e risultati. La prima di queste trappole è la riluttanza ad ammettere la complessità. Risulta infatti che non è possibile avere, in ogni allenamento o gara, esperienze apicali o progressioni lineari. La seconda trappola è la confusione tra esperienza e memoria: in pratica si prova quando ci si confonde tra l’essere soddisfatti di se stessi e del proprio stato o soddisfatti riguardo a come si vive la propria disciplina. In pratica è la differenza tra pensare la gara e vivere la gara. E la terza trappola è l'illusione della focalizzazione ossia lo sfortunato fatto per cui non possiamo pensare ad alcuna circostanza che influisca sul benessere senza distorcerne l'importanza: una vera trappola cognitiva. E non c'è alcun modo di fare la cosa giusta. Facciamo l’ esempio di un atleta che dica: ‘tutta la partita è stata gestita in modo magnifico e poi è bastato un piccolo errore che mi ha rovinato l’intera gara’. Questa lettura dell’esperienza è corretta o no? La risposta è no. L’atleta ha vissuto l'esperienza. Quello che viene rovinato è il ricordo dell'esperienza. L’atleta ha giocato per 90’ minuti in modo meraviglioso, ma per lui non conta niente perché in testa ha un ricordo negativo. Il ricordo è rovinato, e il ricordo è tutto ciò che gli rimane. Ciò che questo esempio ci dice, in fondo, è che noi pensiamo a noi stessi e ad altre persone in termini di due "Sé ". C'è un Sé che vive delle esperienze, che vive nel presente, conosce il presente e ha solo il presente come riferimento. E poi c'è il "sé che si ricorda", che segna i punti e si occupa dei dettagli. Queste sono due entità differenti, il sé che vive un'esperienza e quello che se la ricorda, e confondersi tra le due è parte della confusione della nozione di soddisfazione in quello che si fa. Sbagliare, ovviamente, non è mai positivo e i momenti d’errore possono dominare, ma è un abbaglio ingaggiare un conflitto diretto tra il Sé che vive le esperienze ed il Sé che le ricorda. E’ un chiaro errore di prospettiva. Ricapitoliamo, il Sé che vive le esperienze vive la sua vita in maniera continua. Ha momenti in cui vive esperienze che si susseguono. E ci si domanda: cosa succede a quei momenti? La risposta è semplice. Sono persi per sempre a meno che, di tanto in tanto, non ci soffermiamo e meditiamo. Il presente psicologico dura circa tre secondi. Il che significa che in una vita, ne contiamo circa 600 milioni la maggior parte dei quali non lascia traccia. La maggior parte di quei momenti vengono completamente ignorati dal Sé che ricorda. Ma quello che succede in quei momenti di esperienza è la nostra vita. Sapere come spenderla, sarebbe rilevante, ma non è questa la storia che il Sé che ricorda valorizza. La più grande differenza tra i due è come trattano il tempo. Il tempo è la variabile critica che distingue il Sé che ricorda dal Sé che vive le esperienze. E il Sé che ricorda le esperienze fa di più che ricordare e raccontare storie. Alla fine è quello che prende le decisioni. Perché diamo tanto peso alla memoria rispetto al peso che diamo alle esperienze? Adesso voglio che pensiate ad un esperimento col pensiero. Pensate ad una gara molto importante, che non potete sbagliare. Immaginate che durante la gara sappiate che alla fine dell’incontro prenderete una medicina per l'amnesia cosicché non ricorderete nulla. Immaginando di averne la possibilità, scegliereste la stesso atteggiamento per la gara? Probabilmente fareste una scelta, ma continuerebbe il conflitto tra i due Sé e dovreste pensare a come risolverlo. E la soluzione è vivere l’esperienza, non ricordarla. Risultato delle nostre considerazioni? Il Sé che vive le esperienze è il terreno più fertile ma non ha voce. Di fatto, noi non scegliamo tra esperienze, ma tra i ricordi di quelle esperienze. Ed anche quando pensiamo al nostro futuro, in genere non pensiamo al nostro futuro come esperienza. Pensiamo al nostro futuro come memorie anticipate. In pratica possiamo considerare questa situazione, come una tirannia del Sé che ricorda, e possiamo pensare al Sé che ricorda come una guida di cui il sé che vive le esperienze non ha bisogno. Quindi alleiamoci con la presenza consapevole dell’esperienza con lo scopo di soffrire meno il conflitto del pensiero cognitivo basato sulla memoria. Ne vale la pena.
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