Un allenatore è in grado di determinare il clima emozionale percepito dall’atleta ed è in grado di modificarne la motivazione. Come ci riesce? Con comportamenti appropriati e condotte comunicative efficaci. Queste ultime, sono il frutto di qualcosa che va oltre la sua preparazione tecnica e riguardano più precisamente il suo sviluppo personale e relazionale. L’allenatore, che non è una ‘tabula rasa’, quando pensa a un progetto (atleta o squadra) ha delle aspettative precise sulle future capacità dei propri atleti. Queste aspettative, che sono il prodotto di stereotipi, reputazione dell’atleta, precedenti prestazioni e credenze ‘ingenue’, lo guideranno ad adottare comportamenti, dare feedback, attenzione e tempo diversificati, da atleta ad atleta, in ragione delle sue stesse aspettative. Quindi, anche quando un allenatore dice, ‘voglio vederti in campo e valuterò di conseguenza’, non è credibile, perché ha già in atto l’aspettativa ‘profetica’ del suo proposito. Tutto ciò naturalmente è la norma. Il problema subentra quando i piani dell’allenatore entrano nella fase operativa, dove il tranfert della comunicazione diventa centrale. Infatti, bastano comportamenti apparentemente irrilevanti e approcci comunicativi inadatti, a rendere scarsi i risultati e l’entourage demotivato. Vediamo ora come i comuni comportamenti dell’allenatore, possano risultare efficaci o meno sul rendimento e la motivazione dell’atleta. Il tempo passato a parlare con l’atleta in genere si pensa che sia utile, e lo è. Ma lo è in particolare se si ascolta l’atleta, molto meno se è l’allenatore a parlare e istruire. Quindi attenzione ai ‘turni di parola’ (come dice il mio amico Dott. Trevisani). Il tempo fornito all’atleta per svolgere autonomamente i propri esercizi è molto positivo, ma lo è ancor di più se alla fine di un allenamento rimane tempo per un generoso feedback sull’atteggiamento del lavoro compiuto. La soluzione dei problemi tattici da parte dell’allenatore, sono infinitamente meno efficaci di un aiuto a rintracciare da sé, atleta, la soluzione di un dubbio tattico o di una strategia. Spesso vediamo allenatori che urlano e sbraitano a bordo campo e sembrano infondere il loro sapere a dei poveri inetti. Purtroppo, serve a poco, se il copione e la sceneggiatura non sono state ben organizzate prima e durante gli allenamenti. In campo, secondo me, dovrebbero prevalere carisma, lievi aggiustamenti, invenzioni. Allo stesso tempo, servono a poco le affermazioni di dovere (‘si deve fare così’) o le istruzioni a comando (’fai questo e basta!’). Sono molto più efficaci l’apprezzamento per una performance (’hai saltato proprio bene’), l’elogio diretto alla persona (’sei bravo/a’) o l’incoraggiamento (’dai che ce la fai’). Un allenatore mette in campo tutte le sue qualità comunicative quando valorizza il pensiero del suo atleta (‘cosa ne pensi di questo allenamento o di questa tattica?’), quando verifica il suo messaggio (‘hai capito!’), quando ascolta le sue domande, palesi e nascoste, quando ne apprezza le rivelazioni emotive e quando si pone nella sua prospettiva, in chiave empatica. Certo, ho parlato di allenatori e di qualità personali e comunicative, ma poi ci sono i ‘maghi’, i ‘cinghiali’, le ‘folle cantanti’ e i problemi di cassa. E allora la psicologia diventa un plus, soprattutto per coloro che, esercitandola, cercano di salvarsi dai naufragi del buon senso.
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